Magazine Per Lei
Molti anni fa, da ragazza, mi feci convincere da Davide, il ragazzo che frequentavo allora, ad andare a vedere con i suoi amici la finale di campionato di basket in trasferta. La squadra della mia città era al secondo posto e si giocava la coppa. Allora il basket era molto di moda tra noi ragazzi, nella mia compagnia era l'unico sport davvero seguito. Mi sono spesso chiesta come mai, in un paese famoso per il calcio, non avessi altro che amici tifosi di pallacanestro. Forse era per la proverbiale altezza dei triestini, mi dicevo, che con le stirpi mescolate tra Austria e popoli slavi, innalzava la media italiana di un bel po di centimetri e facilitava il praticare (e quindi amare) il basket.
Gli amici del mio ragazzo erano suoi coetanei, tutti più grandi di me di tre o quattro anni. Da adolescenti quei pochi anni sono molti.
Il pullman ci portò a Bologna, e la mia prima esperienza di tifo in curva è l'unica cosa che rimane nella mia memoria, dopo tutti questi anni. La partita fu vinta, mi sembra di ricordare. Ecco perchè gli ultrà bolognesi al fischio finale dell'arbitro, si infuriarono.
Quello che mi è rimasto però di quella trasferta è il travagliato e insolito ingresso al palasport. Ero una ragazzina, l'unica di sesso femminile nel gruppo, e i miei amici mi tenevano d'occhio, attenti a che non mi succedesse niente, in quel marasma di scatenati tifosi. La ressa era imponente, le guardie oltre le transenne erano palesemente tese, all'apertura dei cancelli centinaia e centinaia di ragazzi e uomini letteralmente si spremevano all'interno, già incitando la squadra. Alcuni poliziotti bardati da partita con tanto di casco, perquisivano chi entrava e procuravano così una strettoia nel passaggio che congestionava il flusso di persone. Ero schiacciata, avevo perso il contatto di Davide, non vedevo neppure dove mi stavano spingendo. Ad un certo punto ho temuto di non riuscire a respirare, e fu allora che accadde quella cosa strana, che si è fotografata nella memoria delle sensazioni. La folla, ben più alta di me, mi premette talmente tanto intorno al corpo che in un movimento collettivo i miei piedi si staccarono da terra. Rimasi così, appesa tra le persone, con le braccia bloccate e i piedi penzolanti. In questo modo, tra il comico e il pericoloso, andai avanti nel tragitto verso l'ingresso per un po' di metri, senza toccare per terra, trasportata dalla pressione degli altri.
Quella sensazione mi rimane ancora adesso. E mi fa pensare a certe altre circostanze della vita.
Essere in un luogo perchè ci hai voluto andare e ti sei fatto anche un lungo viaggio per arrivarci, trovarti poi pressato talmente tanto dalle circostanze, dai movimenti, dalla stessa presenza degli altri, da andare avanti pur senza farlo realmente. Tanto che senza una tua consapevole volontà, in quel tratto ti portano avanti gli altri. E tu rimani lì, trasportato dalla vita che hai scelto, e in quel momento ti senti tanto impotente quanto stanco. E ti lasci portare.
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