La storia che segue non è una storia, o meglio non è una storia che d’altra parte meriterebbe di essere raccontata. La storia in sé è piccola e insignificante, è un “fatto realmente accaduto”, sebbene non ci sia niente di sensazionale in questo, cioè, che un fatto simile sia veramente accaduto, se non altro perché tutto è – questa piccola storia – fuorché sensazionale. Facendola breve, sono le 7.35 di giovedì mattina, entro in ufficio, sono ancora in piedi davanti alla scrivania intento a frugarmi nelle tasche, non ho ancora acceso il computer. I corridoi sono deserti, o almeno così credo. A smentirmi arriva un toc toc sulla porta dell’ufficio. “Avanti”, dico. Si apre la porta, è un’impiegata che conosco di vista, una signora abbondantemente oltre la cinquantina. “Sono finita in un bel guaio”, mi dice. La guardo negli occhi, ha un luccichio spaventoso, sembra terrorizzata. Temo che le sia appena successo qualcosa di molto grave. Non so che aspetto abbia la mia faccia in risposta alla sua, mi inumidisco le labbra e faccio per chiederle: “Che è successo?” Ma in realtà quelle tre parole seguite da un punto interrogativo non usciranno mai dalla mia bocca. Perché lei mi precede facendo un passo nella stanza e lasciandosi immergere nella luce morbida e soffusa del mattino. Il luccichio nei suoi occhi si cancella in un istante, la posa rigida della sua bocca si scioglie, fa un respiro grande e vuota il sacco: “Mi si è incastrato un Cerealix nel distributore automatico”.
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