Chi è particolarmente sensibile alla realtà ai temi ambientali e delle risorse dà ormai per scontato, sulla base di una mole immensa di evidenza scientifica, che se non cambiamo rapidamente i nostri stili di vita e il nostro modo di produrre e consumare, e se non riduciamo i nostri numeri, la nostra civiltà collasserà e la stessa sopravvivenza dell’umanità sarà a rischio. Esiste però un’altra possibilità, anche se meno probabile: che gli “ottimisti” abbiano ragione e che all’ultimo momento delle soluzioni tecnologiche rendano possibile ottimizzare ancora l’uso delle risorse e salvarci dal disastro senza nemmeno sacrificare le comodità a cui siamo abituati. Potremmo crescere ancora economicamente e demograficamente, come molti, forse la maggioranza, auspicano. Anche se questa previsione si avverasse, ed è molto improbabile, sarebbe necessariamente una buona cosa? In che mondo ci troveremmo a vivere? Sarebbe un mondo orrendo, coperto di città e agricoltura intensiva, in cui non ci sarebbero più foreste o spazi selvaggi, in cui vivremmo impilati l’uno sull’altro e di tantissime specie animali e vegetali che oggi ci incantano non rimarrebbe che il ricordo. Magari, disabituati alla vera bellezza e sempre più compressi, ci consoleremmo con quel poco che rimane: cani, gatti e canarini.
Volevo arrivare infatti a questo: l’idea che, antropizzando il mondo, stiamo antropizzando anche la natura, creando non solo una distinzione ma anche un conflitto tra animali utili o amati dall’uomo e animali minacciati da esso; con una distinzione e conflitto ulteriore tra animali utili (maiali, galline, mucche…), condannati a sofferenze senza fine, e animali amati (quelli domestici), vezzeggiati e protetti. Siamo arrivati al punto che amare la natura o gli animali in generale e amare il nostro giardino e i nostri animali domestici sono due cose non solo diverse, ma anche in contraddizione. Per irrigare il prato prosciughiamo gli ecosistemi naturali, per tenere il gatto permettiamo lo sterminio di tutti gli animaletti che vivono attorno a noi, per sfamare il cane finanziamo allevamenti intensivi in cui le bestie soffrono e l’ambiente è sacrificato per fare posto a quella che somiglia più a un’industria che a un’attività “naturale”, e così via. Dal mio punto di vista sfamare i propri gatti con le crocchette è una manifestazione poco evidente di quel “familismo amorale” già teorizzato in campo umano.
Vorrei a questo proposito segnalare una riflessione molto interessante comparsa sul sito della BBC, proprio sulla differenza tra chi ama la natura e chi ama i propri animali. Io ho già da tempo, e so che ci sono lettori del blog che non sono d’accordo, deciso di non tenere nessun animale domestico, proprio per amore degli animali selvatici e dell’ecosistema in generale. Cercherò di ospitare animaletti se avrò un giardino, e al massimo mi riservo, se realizzerò mai il mio sogno di avere qualche bestia da mungere, di assumere un cane pastore (e sfamarlo con cibo prodotto da me). Questo mi sembra accettabile perché c’è una piccola porzione di ambiente che inevitabilmente dev’essere sacrificato se io voglio nutrirmi e vestirmi – questo va ammesso senza ipocrisie. Ma tra l’animale addomesticato e la natura io ho già scelto quest’ultima, per quanto già alterata e modificata da noi – ma almeno libera.
Comunque, il titolo del post è Travesio perché il 21 marzo, alle 20.30, presenterò il mio ultimo romanzo nella Sala Polifunzionale del Centro Studi di Travesio.