Io penso che il terzo settore, che per me in realtà è il primo, è un universo così ricco e composito che non può essere regolamentato se non con una legge di ampio respiro.
Queste parole sono state pronunciate dal primo ministro Matteo Renzi alcuni giorni fa. Senza voler prendere parte alla bagarre del pro o contro Renzi, mi pare molto interessante fare alcune riflessioni.
Portare il non profit tra le priorità di un paese è non solo importante, ma pure necessario. Scriveva Peter Drucker, il padre del management, alcuni anni fa: “Occorre – una politica pubblica che faccia del non profit la prima linea di attacco ai problemi sociali del paese.”
Probabilmente è ciò che pensa anche Renzi, che qui mi piace citare soprattutto perché ha usato due parole chiave: Il non profit è un universo ricco e composito.
Di questa ricchezza credo spesso non si sia consapevoli. Tanto per iniziare, in Italia quando si dice non profit, si pensa al sociale. Ci si dimentica però che siamo pieni di organizzazioni non profit anche in ambito culturale e sportivo. Le loro attività non sono naturalmente di tipo assistenziale, ma– ecco perché ne parlo qui – sono in genere associazioni che organizzano eventi sportivi e culturali.
Non si tratta di aziende il cui scopo è fare business usando gli eventi, ma di organizzazioni che mettono in scena qualcosa con scopi diversi dal business in quanto business. Spesso lo scopo è semplicemente la promozione della cultura o dello sport. E spesso sono eventi che hanno bilanci di tutto rispetto, che fanno girare parecchi soldi, che sono legati al mondo for profit tramite sponsorizzazioni e cooperazioni di vario tipo. Cioè: spesso queste associazioni sono abituate a dialogare con il for profit. Eppure nonostante la pratica si creano ancora oggi stonature di tipo culturale, nel senso più amplio possibile del termine.
Cerco di spiegarmi.
Business non profit: un ossimoro o un’opportunità?
Nel 1992, Peter Drucker scriveva nel suo libro Gestire il futuro: “Quarant’anni fa management era una brutta parola per i militanti delle organizzazioni senza fini di lucro”.
Io ho la sensazione cha ancora oggi ci sia chi prova disagio a usare certe parole abbinate al non profit. Parole come management e business.
Non conosco così bene il settore del non profit culturale da potermi sbilanciare, conosco però bene il mondo sportivo e certo è che i malintesi (o le ipocrisie) tra for e non profit ci sono e si muovono in genere su due fronti.
> Nel non profit ciò che conta davvero è la passione. Le competenze sono secondarie
E come conseguenza:
> Chi lavora nel non profit deve mettere in campo se stesso per la “causa”. Avere pretese di riconoscimenti economici per le proprie competenze è insultante per il non profit. Qui dobbiamo essere tutti volontari.
Ecco, io penso che se davvero si vuole avviare la riforma del non profit, si dovrebbe anche avviare un processo di cambiamento culturale nella percezione di ciò che il non profit è e di ciò che non è.
Certamente oggi il non profit non è una banda di innamorati della causa che possano assumersi gravi responsabilità per semplice pura passione. Appassionati si, stupidi no.
Il falso dilettante
In un bellissimo libro sulla filosofia dello sport ho trovato una definizione che mi piace usare come metafora per descrivere il manager del non profit oggi: il falso dilettante. Dove falso non va inteso in modo negativo. Molti atleti da un punto di vista formale non sono professionisti (accade ad esempio nello sci, nell’atletica, nella ginnastica …), ma operano, agiscono, si allenano e competono come dei professionisti.
Il non profit è pieno zeppo di falsi dilettanti, che devono agire con efficacia e per questo andrebbero ascoltati o nutriti.
Tre sono in particolare gli ambiti in cui vale la pena investire.
1. Il non profit ha bisogno di management
Mettersi insieme solo perché si crede in qualcosa e farlo senza management è come fare una scampagnata tra amici, nella quale però si rischia di perdere un sacco di soldi e di finire la festa litigando furiosamente.
Management vuol dire: strategia, organizzazione, controllo, decisioni, formazione. E queste sono cose che “non si nasce imparati”, quindi, se si vuole che le organizzazioni senza scopo di lucro – anche in ambito culturale e sportivo – crescano, non si scappa. Scriveva Drucker, sempre in Gestire il futuro: le associazioni non profit vogliono sempre fare del bene, ma si rendono anche conto che le buone intenzioni non possono sostituire l’organizzazione e la leadership.
> Cioè: management non è una brutta parola, é invece il nutrimento primario (sine qua non) anche per chi opera senza scopo di lucro.
2. Raccogliere fondi non vuol dire elemosinare
Le organizzazioni, di qualsiasi tipo esse siano, devono pensare a se stesse non solo nell’ora o nell’arco di un anno, devono invece pianificare sé stesse a lungo termine se vogliono crescere. Raccogliere fondi dovrebbe divenire uno “sviluppare i fondi” e per fare ciò torniamo al punto precedente: ci vuole un management giusto che sappia far crescere capacità e talenti e che si doti di strumenti propri del for profit. Ad esempio il marketing. Vendere è diverso da elemosinare.
> Cioè: la filantropia puzza di ottocentesco e non consente sviluppo, crea piuttosto dipendenza.
3. Il capo non è capo. Molto peggio: è il responsabile
La scelta del presidente è importantissima. Spesso alla guida si sceglie una persona che porti lustro, il nome da comunicato stampa, per intenderci, oppure si opta per una persona che abbia tempo. Entrambe le scelte sono sbagliate. Anche il non profit come il for profit dovrebbe scegliere la sua guida, il consiglio di amministrazione, il “top management” secondo la legge dell’efficienza e dell’efficacia. Accanto al presidente e un consiglio che sappia condividere strategie, ci vuole l’operativo. La direzione generale deve essere affidata a un professionista. In questo caso sconsiglio davvero di tirare dentro qualcuno semplicemente perché ha tempo o è amico. Ovviamente deve credere nella causa tanto quanto i fondatori.
> Cioè: guidare il non profit non significa passeggiare sul “red carpet” o passare del tempo; significa invece lavorare sodo e condividiere scopo e strategie.
La regola del buon senso.
Per ciò che posso vedere dal mio piccolo osservatorio, la strada è ancora molto lunga e infestata di pregiudizi.
Forse gli obiettivi che si è dato il governo sono l’inizio di una modernizzazione che consentirebbe anche ai mille eventi non profit di sopravvivere e crescere.
E se molti eventi non profit spariranno, vorrà dire che non sono stati in grado di assumere un atteggiamento imprenditoriale. Vorrà dire che hanno preferito restare legati al modello filantropico e all’idea che basta essere non profit per essere nel giusto.
Giudizio severo il mio – me ne rendo conto – e so bene che in questo difficile momento storico anche i grandi soffrono. Ma alla fine vale una semplice regola di buon senso: se fai le cose per benino, te la puoi cavare. Se pasticci, non ti lamentare se poi nessuno ti ascolta.
Per approfondire:
- Un libro obbligatorio per gestire il non profit è L’era della contaminazione, che - pur trattando il non profit sociale – offre mille spunti per anche quello sportivo o culturale. L’autore, Gianluca Cravera, cura anche un blog sul management sostenibile.
- Ho giá scritto altre volte sul non profit prendendo spunto da questo libro. L’ho fatto qui e qui e qui. Sono articoli un po’ vecchiotti, ma offrono ancora una guida valida applicata agli eventi.
- Peter Drucker ha dedicato un libro al non profit: Managing the non profit organisation (Harper Collins, 1992). Purtroppo non esiste in una traduzione italiana (o per lo meno io non l’ho trovata).
- Libri utili al mestiere (libri che spesso parlano di impresa e non sempre di non profit) si trovano nella mia biblioteca on line.
L’immagine usata per questo post arriva via Araceli Hipólito - Pinterest.