Tre domande sull’introversione allo scrittore Erri De Luca

Da Colorefiore @AmoreeDintorni

Tu scrivi, in “Non ora, non qui”, che sei stato “un bambino più assorto che quieto” e, parlando ancora di te stesso, ricordi che “una fioritura di reticenze” preparava la tua identità. Questi caratteri si ripetono nelle esperienze di molti introversi. Come hai vissuto l’indole che descrivi in modo così limpido nel tuo libro durante la tua infanzia e la tua adolescenza?

Ringrazio per l’aggettivo limpido, che può essere riferito alla scrittura, che arriva a fare da sutura a un tempo suppurato. Nell’infanzia ero un cespuglio di spine rivolte all’interno.  L’adolescenza è stata impegnata dal tentativo di smussarle con lo strumento preferito dai muti, la lingua. Ho letto un castello di libri, ho scritto un deserto di pagine. Non è una terapia, è un modo per approfondire invece il proprio isolamento.
Come spesso può registrarsi in molte esperienze di introversi, hai intrapreso la tua strada verso i quarant’anni anche se durante gli anni da operaio scrivevi nelle ore che ti rimanevano. Quali sono state le difficoltà che hai incontrato nel conciliare il lavoro con la scrittura e quali le motivazioni che ti spingevano a scrivere in quel periodo?
Mi sono tenuto compagnia con la scrittura fin da ragazzo. Durante gli anni operai era per me il tempo opposto a quello di lavoro. Aveva un puntiglio di resistenza all’usura della giornata venduta per salario. Non si conciliavano i due tempi, uno era immenso e schiacciante, l’altro era minuscolo e capace di non farsi annientare. Scrivevo allora come adesso per raccontarmi storie. Non ho niente dello scrittore professionista che si accomoda al suo scrittoio con l’intenzione di svolgere il suo lavoro. Scrivo  seduto in qualunque posto e sulle ginocchia. Nessun chiasso intorno, nessuna confusione mi può distrarre.
È noto il tuo impegno politico negli anni giovanili e, più tardi, la tua esperienza di impegno civile, in Africa, in Bosnia. È riferibile, questa tua propensione, a quello spiccato senso di giustizia proprio di molti introversi che lo vivono spesso con una profonda sofferenza?
La giustizia è il sentimento principale della persona umana, il suo nervo più scoperto. Credo che il periodo rivoluzionario appartenga al tentativo di rispondere a una lesione di quel sentimento. Il 1900 è stato il secolo delle rivoluzioni, ho fatto parte dell’ultima generazione rivoluzionaria del 1900. Appartenevo alla comunità mondiale che trasformava così i rapporti di forza tra oppressori e oppressi. Nell’impicciarmi invece di guerre altrui, come quella di Bosnia e quella seguente della Nato contro Belgrado, credo che sono stato mosso dal sentimento della fraternità. 
di Lisa Cecchi

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