Allora, tre donne – tre scrittrici – si trovano periodicamente nel freddo inverno di Avellino, protette dall'ombra di Montevergine, davanti a una tazza di tè chiacchierano, si scambiano idee e sciorinano ricordi, e quello che ne viene fuori è questo piccolo libro. Piccolo per numero di pagine, 113, ma così ricco che per cominciare ha ben tre autrici, le cui tre voci si alternano a formare il ritratto polifonico di una città amolto amata e molto criticata, scrutata, analizzata, ricordata e descritta come solo chi vi ha trascorso l'infanzia può fare. Emilia Bersabea Cirillo, con grande padronanza di mezzi, ricrea pezzi di una città del passato che sapeva vivere in simbiosi con la campagna che la circondava, racconta delle grandi sapienze femminili che senza prosopopea, attraverso le umili attività quotidiane, creano civiltà e cultura. Si trova qui al suo meglio la capacità della scrittrice di chinarsi con amore e competenza sulla civiltà materiale (vedi il bellissimo Il pane e l'argilla). La scelta di Fiorella Bruno è più narrativa, e affida a una terza persona senza nome sensazioni e esperienze sicuramente autobiografiche, che esprimono felicità e riconoscenza per la città dove vive. Rosa Di Zeo intreccia veloci poesie (suo è il geniale titolo) dal tono piano e riflessivo, o abbozza impressioni con mano leggera. Tutte ricreano genealogie personali, tratteggiano indimenticabili figure di nonne, zie, maestre e amiche, personaggi spariti ma vivissimi: basti citare l'ultimo brano di Fiorella Bruno, Era... Anche questa, in un certo senso, è letteratura locale, dove però Avellino è un mezzo per ampliare la veduta e buttare lo sguardo sul vasto mondo dei sentimenti e dei ricordi, della ricostruzione di sé, della propria identità nel flusso della vita e delle generazioni.
Magazine Cultura
Tre donne intorno al cor: Le zampe dei gatti hanno cinquant'anni, di Fiorella Bruno, Emilia Bersabea Cirillo, Rosa Di Zeo
Creato il 10 giugno 2014 da Consolata @consolanza
Allora, tre donne – tre scrittrici – si trovano periodicamente nel freddo inverno di Avellino, protette dall'ombra di Montevergine, davanti a una tazza di tè chiacchierano, si scambiano idee e sciorinano ricordi, e quello che ne viene fuori è questo piccolo libro. Piccolo per numero di pagine, 113, ma così ricco che per cominciare ha ben tre autrici, le cui tre voci si alternano a formare il ritratto polifonico di una città amolto amata e molto criticata, scrutata, analizzata, ricordata e descritta come solo chi vi ha trascorso l'infanzia può fare. Emilia Bersabea Cirillo, con grande padronanza di mezzi, ricrea pezzi di una città del passato che sapeva vivere in simbiosi con la campagna che la circondava, racconta delle grandi sapienze femminili che senza prosopopea, attraverso le umili attività quotidiane, creano civiltà e cultura. Si trova qui al suo meglio la capacità della scrittrice di chinarsi con amore e competenza sulla civiltà materiale (vedi il bellissimo Il pane e l'argilla). La scelta di Fiorella Bruno è più narrativa, e affida a una terza persona senza nome sensazioni e esperienze sicuramente autobiografiche, che esprimono felicità e riconoscenza per la città dove vive. Rosa Di Zeo intreccia veloci poesie (suo è il geniale titolo) dal tono piano e riflessivo, o abbozza impressioni con mano leggera. Tutte ricreano genealogie personali, tratteggiano indimenticabili figure di nonne, zie, maestre e amiche, personaggi spariti ma vivissimi: basti citare l'ultimo brano di Fiorella Bruno, Era... Anche questa, in un certo senso, è letteratura locale, dove però Avellino è un mezzo per ampliare la veduta e buttare lo sguardo sul vasto mondo dei sentimenti e dei ricordi, della ricostruzione di sé, della propria identità nel flusso della vita e delle generazioni.
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