
Marina Pizzi
Di MARINA PIZZI
12.
mia madre è morta di strano cuore
una maretta intrisa di preghiera
la mia di sapida bestemmia
dove la pietà si annulla in urlo.
in un covo di rettitudine blasfema
ho sopportato l’agonia la gogna
dell’attesa e il silenzio finale.
con un pellegrinaggio di lenzuola
la giornata si fa atroce come la purea
di tutti i giorni e le cibarie pessime.
escludo da me la veglia della gioia
questa vanga di fanga e di gran fuoco
quando i fiori si gettano per terra
a piramide profumata. si toglie tutto
anche la croce per la cenere maligna.
resti o svapori poco importa alla baldanza
di lucciole letargiche e fuochi fatui.
i lavori degli uomini continuano
a trasportare morti per furti futuri.
si ruba ai morti tanto non costa niente
e la baldoria non barcolla un attimo.
13.
l’arringa del salice piangente
ingenera chissà quale soccorso
verso il sudario della donna in lacrime
sul crimine d’intendere l’area del pozzo.
quale dolore t’infilzò la milza oh fratello
del bosco? quale scoscesa realtà
volle sedurti al panico? intùito vederti
ormai che morta fu la nenia di
baciarti oltre. così commosso l’antro
del mio bene non trova strada sul dazio
del sale. ora me ne andrò per far cometa
il sogno. al vespro la madre non rincasa.
tu sapevi che piangere è morire lungo
la rotta del salario chiuso. misure d’asma
non trovarla più.
[***]
41.
sarà così che andrà via l’umano
dal sangue prolisso dell’invano,
la gloria scalcinata dell’infanzia
quando mia madre m’incise il cuore
per una manciata di cipressi plurimi
dove nessuno osa ridere la nenia
di guardarli. in pugno all’osso di mio padre
morto questa cometa resa permuta di sé.
la giuria della foce è il disinganno
protervo quando una rupe in fretta
canuta. la tuta della neve è un pupazzo
che fa cadavere sulla panchina
patente noia della vita china.
il feretro del sole non sa promettere
che regalie di ceneri. il ghetto del sopracciglio
non mi fa vedere che ombre nel breve viale
che sperpera la rosa e la inuma.
42.
resisto da sola in campo corto
in un assesto di storia quasi sbornia
per uno svilente anfratto senza abbracci.
brancolo una neve che mi dia rispetto
un aspetto smilzo per le rondini
finalmente una gincana credula
dove addormentare il tempo.
un urlo bonario di civetta
accrediti il lunario presso dio
con la risposta in apice di cielo.
qui a me di spalle c’è un diamante cieco
valore letargico e mortale. accanto
a un amante mansueto s’issa
la stazza del verdetto.
[***]
60.
Signore Iddio cieco cuore
palese inganno dove il ricordo
getta dolore gaio alle cornacchie
e il paese si rinchiude carcere
di assoluto sguardo. di diletto e di fragranza
credere alle nespole dove lo spoglio della luna
è lo spillo di crescere per morire. in palio sotto
l’abaco del ventre c’è la staffetta della cometa
cadente dove s’impugna il tempo di resistere
brani di vento tagliole crudeli. divento la sillaba
del sale ogni qual volta l’origine del desco
commette eresia e salso credo. versione di
solitudine guardarti senza la verità della sillaba
bacata dall’ardore di morire. sono un caso
d’incombenza atroce perché la nebbia mi percuote
il cielo e la staffetta del tempo sbraita le cellule
maldestre. su di me si stagna la palude
della luce cattiva senza pupille per capire
il mondo o la rondine dolente. in mano al folle
ardire del silenzio c’è la brocca candida di olive
dove spera l’alunno elementare e la tragedia s’acquieta.
dimmi perché non hai badanti di lucciole
né chiome per il fratello innamorato
del mare sconnesso senza pena.
Da Cantico di Stasi (2011 – 2013)