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TRE MEDEA | Carrie Cracknell – Emma Dante – Tonino De Bernardi

Creato il 15 dicembre 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

di Massimo Lovise

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Medea
Lascivia, cecked, adulterio, ok, biasimo… ne abbiamo, castigo… tre chili prego che non farà certo in tempo ad andar di malo. La tragedia di Euripide è sempre dietro l’angolo, si ostina a non voler passare di moda. Al National Theatre di Londra Carrie Cracknell regista e Ben Power sceneggiatore l’affidano a Myra Hindley in mimetica baggy e t-shirt come a Dalston, le mettono in bocca un vernacolo senza peli sulla lingua, discosto dalla pompa greca, ed uno spazzolino da denti mentre rabbocca le coperte ai pargoli meticci di Danny Sapani, fraudolento Giasone affamato di potere. E giù da Brixton o Peckham sembra venir pure Michela Coel governante prosatrice simil-Skunk Anansie (per capirci) che ci riferisce del prossimo matrimonio di Giasone con la giovane Kreusa, figlia del re di Corinto. Tom Scrutt’s impila testualmente i due piani scenografici: sotto lo sberciato casamento di Medea con l’ostile boscaglia retrostante e proprio in groppa la lucente invetriata modernista Bauhaus dietro cui s’officiano le nozze, allestimento scenico razionale, progressismo posposto ai settanta con ragguagli espliciti alla moquette e al mobilio Shining ed a tutto quell’armamentario da paura che ripiglia pure il nostro Argento Dario. Così eccoli gli ospiti a bisbocciare proprio sulla cucuzza di Medea costretta a riparare nel bosco abbaiandogli e impetrandogli il peggio, stesso bosco che verrà poi utilizzato come unica scenografia nel film fatto per uscire un giorno e un giorno solo nei cinema di tutto il mondo (National Theatre Live). Scrutt’s, nel pomeriggio che precede lo spettacolo, ci dice di aver provato a creare una scenografia di soli alberi per la rappresentazione
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all’Oliver, e di come li abbia invero trasportati fin lì gli alberi: ma non lasciavano vedere un picchio secco. Seduto accanto a lui la brava regista Cracknell in procinto di figliare ella stessa, e questo non può distrarci dal pensare tutto il tempo dell’intervista a come potesse aver vissuto l’appalto di un’opera che quasi soltanto di questo parla. Ma torniamo sulla scena del delitto: Martin Turner re di Corinto in gessato da city scende dai piani alti, lascia il banchetto nunziale della figlia, per disporre che Medea parta col calar del sole, impensierito un attimino da quello che la nostra potrebbe combinare. Ci viene dosato un lento impulso di brividi anche dalle danzatrici del coro – donne di Corinto, che si spiegano a borbotti afflitti e vivacizzi geometrici di scuola Vuppertal, Pina Baush docet, della coreografa australiana Lucy Guerin. I trascorsi demolitòri di Medea l’hanno bollata indegna di credito anche presso questo collegio umano, oltre a quello natio, ed a buona ragione mi direte voi… se uno fa il cattivo con gli altri chi si fida più! Come va a finire si sa, ma come il più spesso accade, si spera fino all’ultimo nel miracolo, che al National non arriva e Medea, mi scuso, va in cameretta a compiere il sacrifico dei pargoli necessario alla vendetta totale. L’ossessiva, incantevole e riservata orditura elettronica di Will Gregory e Alison Goldfrapp ci scorta sottovoce tutto il tempo fino al criminoso epilogo che sfrena la legittima standing ovation. E il National puntella il vaneggiamento fornendoci una catena di workshops sulla tragedia greca e la psicologia che sta dietro alle madri degeneri.

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Al Teatro Olimpico di Vicenza, il più antico teatro stabile coperto dell’epoca moderna, Emma Dante dirige bene un’altra Medea più nera e mediterranea, salmodiata, frinita, vocalizzata stornellata dalle ugule bifoniche e stantuffata negli strumenti più antichi dai fratelli Enzo e Lorenzo Mancuso che per primi coprono la falsa prospettiva palladiana lasciandoci subito tutti a bocca aperta. Il canto armonico, difonico, diplofonico e triplofonico che sfrutta le risonanze che si creano tra le corde vocali e la bocca per risaltare gli armonici della voce, un’unica voce che produce due suoni, e possibilmente qualche altro aggiunto, usato dai due siciliani come dagli Inuit, dai tibetani e dai mongoli, in Sudafrica tra le tribù Xosa, e pure in Rajastan. Le donne di Corinto sono maschi con desiderio di maternità, vestono bluse nere intruppati in fila per tutto lo spettacolo, con qualche guizzo coreografico anche qui moderno seppur più ginnico, a tratti convertendosi nel carnale Giasone e nell’autocratico Creonte.  La barbara Medea è Elena Borgognoni, più canonica della Hindley, forse un tantino archetipica come pazza. Ferinamente libera di preferire l’errore, straniera ovunque, attenta a non farsi allineare nelle fila della normalità, la sua difformità sta proprio nella facoltà di sgravare, sola fra uomini inadatti allo scopo. Pertanto, quando Giasone si fa re degli sterili, le rende gioco facile colpirli negando a Corinto la perpetuazione della specie, e la Corinto del Palladio riecheggia bene l’insania di lei e se vogliamo ancor meglio l’isteria di loro, i donni di Corinto. 

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Médée miracle è il film più “normale” diretto da Tonino De Bernardi, uno abituato a masticare miti. Nonostante i suoi film circolino fuori dalla distribuzione ufficiale (chiamiamola così), questo immenso regista ha coadiuvato tipi quali Mimmo Calopresti, Filippo Timi e qui Isabelle Huppert nel ruolo della forestiera (non sappiamo da dove venga) che gestisce un bistrot nella banlieu parigina dove si esibisce ogni sera stonando la stessa penosa cantica (una delle più belle mai scritte che neppure Nick Cave) e concedendosi al primo venuto con la goffa fisicità che ormai abbiamo capito essere propria della persona più che dell’attrice Huppert. Attorno a questi due cardini ruota tutto la pellicola: le stonature reiterate fino ad acquisire un senso altro dell’attrice meravigliosamente vestita ogni sera con una mise diversa ed il suo vano arpionare questi soggetti attoniti, tirandoli a terra con se seccamente/seccatamente senza la minima sensualità, o meglio, con una lascivia vestita. Loro, questi amanti del caso, di certo se la darebbero a gambe levate, perché non si fa l’amore così a macchinetta, non fosse per le pozioni magiche che Irene/Medea organizza, ricette importate dalla nazione d’origine che non ci è data sapere. Due gesti carichi di afflizione, estrinsecazioni di purissimo Amore, non certo verso loro ma per il solito Giasone (qui Tommaso Ragno) che non la vuole, che De Bernardi pure azzoppa per totalizzare l’irrazionalità di un concetto così tanto e così poco terreno quale l’amore è, che anche qui la lascia per Eugenia Capizzano, una francese della buona società. Giulietta De Bernardi, la figlia del regista, supplisce le donne di Corinto, affatto ammutolita, così discorde dalle incalzatrici querule e tarantolate della Dante, ma non meno presente e ancor più afflitta dal masochismo di Irene/Medea, quasi la sua appendice sana, la voce interna che non le permette di compiere gesti fatali verso i figli (che qui vengono risparmiati) e anzitutto verso se stessa. Alla fine Irene, sempre meno Medea, proscritta e in procinto di mettersi ancora sulle strade del mondo, sola nell’androne altissimo di una stazione dei treni metafisica, tesa alla disillusione ma non disposta a perire, s’alza, percorre la sala che echeggia le zeppe, forza una vecchia che a noi sembrerà una gitana, l’unico emblematico essere respirante a tiro, la induce in un avvinghio dei suoi, la tira giù sul sozzo impiantito con il suo fare ingroppato, e non la lascia più.

Massimo Lovise

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Cover Amedit n° 21 – Dicembre 2014, “LUCIGNOLO” by Iano

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