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Tre minuti e ventisei

Creato il 09 ottobre 2015 da Leggere A Colori @leggereacolori

Tre minuti e ventisei, una canzone mezzo ritornello e venticinquemila dischi venduti, per tre e ventisei il guardrail ti ha tenuto su e non era colpa della stanchezza, del bicchiere, della statistica. Ma di chi non ti ha ascoltato. Tre e ventisei dura la bugia con la pretesa di usarci, giri bassi, tu sopra io sotto, noi dritti ai guai, la coscienza appesa insieme agli orrendi quadri nel soggiorno dei tuoi. Tre minuti e ventisei di sorrisi tra la folla da far attraccare su qualcuno, da togliere la protezione e vedere se fermandosi ne possono nascere altri.

3:26, credo che andrò a essere nessuno per cinque minuti tutti tuoi, tondi, a tremare al pensiero.

3:26, scusa se duro poco e poi dico cose che sembra che penso. Sono nella media anche se mi credevi speciale.

3:26, di risposte ma non alle tue domande. Si fa quel che si può.

3:26, e accanto a te mi viene la febbre, mi vengono in mente sogni tristi da ammazzare, mi viene l’equilibrio per muovermi tra successo e insuccesso. Potrei cambiare le lampadine all’Orsa Maggiore e morire di una piccola cattiveria.

Adesso ti giri una seconda volta, se mi guardi di nuovo è fatta. Oppure è un gioco di specchi e di riflessi tra le vetrine in cui cerchiamo il senso delle fatiche della settimana. Guardami non sono 2D, sono troppo 3D, e quello che non sai è che se entri, tra il bagnato degli occhi e il velluto del cuore, divento anche 4D. Se non ti volti resto qui come un cartello stradale ad aspettare l’inverno, come il manifesto della cover band che suona al pub questa settimana, come carta di giornale, quella che contiene la storia, che si appiccica all’acqua ed io mi appiccico di nuovo alla mia vita, quello che c’era si dissolve. Adesso, oppure non te lo assicuro per recuperarmi devi stare tre minuti e ventisei in fila.

Forse devi dirmi una cosa bella, oppure stare un po’ meno allo specchio, farmi posto nella tua pancia da dentro, convivere tre ore con un’unghia sbeccata, oppure devi stancarti di me come ci si stanca della guerra, ovvero lì dove ci stanca anche di vivere. Oppure devi prenotare uno sguardo bambino, un temporale su quel rossetto, portarti dietro un sorriso che diventerà il tuo pass. Oppure devi parlare al muro e raccontargli la verità, quello sarà il tuo test d’ingresso in tre minuti e ventisei, dopo esserti abituata portati il muro appresso, se è in buone condizioni, e ripeti tutto a me, anche se non sono in buone condizioni.

3:26 per incontrarci con le mani belle lontane, per non iniziare dal traguardo. Per non iniziare dal tatuaggio sotto il costume, dalle fotografie sul cellulare, dal pacchetto di Marlboro, per non iniziare dall’incoscienza con le sue facce assenti, da un posto letto in più anche stasera, dalla domanda di rito. Per non iniziare da “scusa è colpa mia”, da un messaggio criptico postato su Twitter o da una di quelle cose che per mesi abbiamo ripetuto di più.

3:26, e tu mi chiedi “come mai sei già qui”? “Erano tutti verdi”. Non si può cambiare il luogo di partenza, solo la destinazione, ma si può fare che quella sia il nuovo punto di partenza.

Questa volta ti sei dimenticata di mordermi l’orecchio e di graffiarmi la schiena, di dirmi a che punto stiamo, se eravamo noi o eravamo un po’ altri. Se adesso siamo pari o dispari. Se c’è qualcuno in vantaggio, se siamo a credito. Nessuno, stando alle più recenti informazioni, ci porterà alla felicità apparecchiata e, sempre stando ad informazioni aggiornate, per ora apparteniamo solo alle infelicità.

3 minuti con la babysitter, ventisei secondi per recuperare il respiro regolare e le sue mutandine prima che la porta si apra spinta dai bambini che tornano da scuola.

3:26 per l’appello, chi c’è c’è e chi non c’è peggio per lui, i pochi diventano automaticamente i “pochi ma buoni“.

3:26 per vedere visualizzato quel messaggio di cui ti sei già vergognato.

3:26 per scrivere una lista di cose che non farai mai nella tua vita, che è un po’ colpa del governo, dell’euro, della criminalità organizzata e mai, mai, mai tua.

3:26 per scattare sessantadue foto e tenerne una.

3:26 per decidere di quale sconto morire all’ Intimissimi della Rinascente.

3:26 per una preghiera sincera a perdere che diventa un soffio sui ceri accesi dai più fiduciosi.

3:26 per togliere la pelle alla notte, andare in fondo, e scoprire che il fondo non era poi così diverso da quello che c’era fuori.

Ventisei secondi per la sveglia che suona, tre minuti per una sveglia che bacia.

3:26 per raccogliere tutto e restare, che non si può sempre scappare, e per darsi un’aria da vivi. Accendere la normalità sul canale che guardano i bambini e gli amici.

Aspettavo la pioggia per vestirmi, per andare in mezzo alla gente indifferente e piangerti senza inutili evidenze. Lacrime che sembrano le gocce Swarovski dei lampadari all’ Hemitage di Montecarlo, pronte a non cadere mai. Ti ringrazio per la fiducia ma io non sto cercando bambine da far diventare donne, non sto aspettando donne che si fermano alla faccia, sto solo andando a controllare se riesco a tirare fuori qualcosa da questi “se”. Tre minuti e ventisei, te li regalo.

3:26 per sapere se è maschio o femmina.

3 e 26, a volte durano più i ventisei. Soprattuto se sono venti sei. Perché mi sembra, tolto tutto: le attese, le facce strane, i segni più e meno, i miei sorrisi scarichi e la saliva che ci incolla che mi sono accorto che sei (x 20).

Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei. Sei.



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