Foto di Andrea Silva (2012)
Di ALESSIA D’ERRIGO
E’ scabro il mio petto, come gli angeli aguzzi che spronano al perdono
mai avrà corpo la roccia che s’espande tra le gambe
mai avrà corpo la croce natami in viso
per il perdono tuo, ch’è mio, per i tuoi occhi
per tutto quello ch’è caduto, lecito e illecito ai miei piedi
ci costruirò trecce di cordoglio per ovviare al martirio
per ovviare la stirpe d’abbandono dei nostri corpi
la nostra indissolubile stoltezza di carne
lasciata a macerare, nel nostro cielo di terra.
Il mio cuore d’alce esposto al tuo mirino,
ferita e fraintendimento accavallano la verità.
E tu esigua, affrancata al tuo debole filo
punti il dito tra gli occhi, a voler rivendicare
il torto, la tegola che ha portato via l’aria.
Non t’è bastato conoscermi per annusarmi intera,
pezzo di coccio frantumato d’orgasmi e soglie infinite
m’hai persa per non vedere negli occhi miei l’altra te,
la piccola creatura che l’occhio dondolava,
tua altalena d’amore. Dove fuggisti?
Mi partorirà il glicine quando il folto delle membra
prenderà il viola e l’esporrà al solco profondo del cuore
ma non so se me ne andrò senza scarpe a battere le strade
e i cammini porosi che gravitano d’assuefazione.
Le strade avranno altri nomi quando rinascerò
nella fortezza santa priva d’orpelli, creatura d’osso e
viandante per i mari profondi denudati.
Viola ho detto, della misticanza armigera
che spetta alla donna, quella che alza la sua sfida bianca
e inveisce contro il cielo, che si scrolla con i capelli il ventre
in un solo istante, come il momento esistito ed ora nascosto,
vacuo entroterra di miniere rosa e riflessi.