Magazine Racconti

Trema

Da Nivangiosiovara @NivangioSiovara
TREMASi rincorrono fra le molte luci del centro, le mie ombre. E riflesso sulle vetrine, veloce scorre il mio profilo, che la coda del mio occhio traccia mi-nu-zio-sa-men-te.Cosa faremmo, senza le parole? Avremmo ancora fame, freddo, sonno? Sentiremmo ancora il dolore o la fatica?Non sappiamo sentire qualcosa senza che nella testa ci compaia subito una parola. Precisa, solida, tecnica, spe-ri-men-ta-tis-si-ma. Vanno e vengono. Dentro e fuori, continuamente. Ma... qual era quella parola? Ma... quella che sentii uscendo da quel locale, l'altra notte? Qualcuno la disse rivolta a me, lo capii, mi svegliò dentro, all'istante, una sensazione di freddo, una paura astratta. Ma... era una parola così strana, desueta, vaga, in-deter-mi-na-ta, che la dimenticai immediatamente.In quella parola forse era la chiave di volta.Paura di morire. Torre altissima. Sguardo fiero, all'orizzonte. Lucente.E chi erano quelli che la pronunciarono? Ricordo solo figure indefinite. L'umanità palpita dentro ad unaforma innominata.S'accapigliano, si spintonano, s'azzuffano, da mattino a sera, senza sosta, ad ogni istante, ad ogni respiro, sempre. Ma ora: no. Dove sono tutti?Riecheggiano i miei passi, gravi, sorprendenti. Son più pesanti di me, i miei passi. Li sento replicarsi nelvuoto delle case che fiancheggiano la strada. Scivolare sull'umido lucido del pavimento sotto ai portici.Nella nebbia che mi circonda. Sotto alle alte soffitte, tra i tetti rimbalzano per poi ritornarmi fuori dallegrondaie infuocati, fuori dalle grondaie, di fuoco, pesanti, i miei passi. Infuocati. Ro-ven-ti. Dove sono –tutti – ?Ricordo: si parlò, si disse. C'era qualcosa, nell'aria, qualcosa di peggio della nebbia che inspiro, qualcosache viaggiava da taaanto di quel tempo... Sarebbe arrivata, così dissero, prima o poi doveva pur accadere, quella cosa, arrivava, dopo un viaggio lun-ghis-si-mo: ormai era inevitabile. Se ne parlava per parlare, sì, così, come sempre. Cos'era? Non so. Non mi perdo in chiacchiere, io. Avanza, cammina, non pensare, veloce ma composto, verso casa, al sicuro, al caldo.Al caldo, sì, che qui è freddo, gelido. Tutta mia la città, un deserto. Che conosco: gelido. Gelidi, son di notte i deserti. Nessun abbraccio che li scaldi, troppo lontane le stelle. Alla più vicina poi, si danno le spalle.Passi, miei, lucidi. Poi: fruscio, bisbigliare, ombre non mie, laggiù: gente nascosta dietro alle colonne, vis'attorciglia come fumo, svanisce, si disperde nella nebbia. Qualcosa che sta per arrivare, dicevano, le voci.Ora, lontane. Da lontano, arriverà, è inevitabile. Lontano, sparire, tornare.Rincasa, su, presto. Non farti prender dal timor, non correre, non attirare l'attenzione. Di chi? At-ten-zio-ne. Hai visto stamattina, quei tizi che correvano, dove scappavano? Attenzione. A chi? Ne vedi sempre di gente che corre... ma che scappa!? Non mi guardate. Attenti, pista, passo io! Cos'ho di tanto interessante, eh?Ho coraggio io, filo tra ali d'invisibili folle come se niente fosse. Coraggio. Cammina, co-rag-gio. Ma: la verità? E' che la paura è più antica della morte. Venne prima, giunse subito, era già qui, dice Lui creò laluce, ma la paura già c'era, nel buio. Superato il gelo siderale del cosmico deserto ci cadde sulla testa attraverso la volta sfondata. Tremavamo. Muti. Muuuti. Non gridavamo il nome del pericolo, una volta, non lo nominavano, non lo chia-ma-va-mo. Ci tenevamo stretti, abbracciati, al caldo, tremanti, al caldo ma tremanti.Non c'era bisogno del vostro celebrato coraggio. Non c'andavamo, soli, nella notte, al buio, dove, poi?chissà!Luci, spente, tutte spente, questo luogo è vuoto vuoto vuo-to.Morire di paura. Profondissimo pozzo. Capo chino, incassato. Nero.Respira con calma, non t'affannare. S'appanna il cielo, al mio respiro, a quello di ogni cosa vivente, appanna la volta l'alito delle piante. Ma quali piante, quale volta, è forse il cielo quella dolciastra fluorescente buccia di mandarino che scorgo rovesciata sopra i tetti oltre a questo velo lattiginoso che sfoca la città?città che frammenta la mia ombra in molte ombre, in un esercito in fuga. In ordinata ritirata. Non rotta. Retta.Ordinata. Ritta. Strettamente: ri-ti-ra-ta.È sabato, son sempre tutti fuori città di sabato. Di sera, poi... Lo vedi, che è normale, non c'è proprio nulla di cui preoccuparsi. Ma nooo, non cooosì! Non sono mai così tanto tutti fuori! Qui non c'è davvero più nessuno.E non volano gli aerei in cielo, e non sento moltiplicarsi lo scampanellare a vuoto dei telefoni dagli androni abbandonati. Im-mo-bi-li.Nel movimento il calore. Il gelo nelle pietre delle statue, nei petti degli eroi morti. Arde il cor dell'ardito; di ghiaccio, quello del pavido. Io, ordinato, ripiego, in ritirata. Procedo. Pro-cedo. Vento, ora: nebbia che si dissolve, inesorabilmente spazzata via. Anche lei, lontana. E rimaniamo solo io e la città. Ed il vento. Il giorno in cui io non ci sarò più, e questa città sarà morta, erosa, abbattuta dal tempo, resterà solo il vento a cantare il mondo.Occhi. Che mi guardano. Me li sento addosso, piovermi dalle finestre, sparati dalle porte socchiuse. Rendi il tuo passo più breve e veloce, stringiti nelle spalle, avvolgiti nei tuoi panni. Non sei spiato, non ti guarda nessuno, non ti tengono d'occhio, nessun occhio, non è la paura che te li fa immaginare, è la solitudine, la so-li-tu-di-ne, mio caro: non c'è nessuno che provi interesse per te. Quella cosa arriverà, da lontano, e ti sorprenderà, solo, freddo, immobile, col tuo cuore ghiacciato ben avvolto nei tuoi tiepidi stracci. Lenta plana una foglia, poi ecco che sembra reagire, sbanda, scende ancora, giusto per un istante, s'impenna, ce la fa, ce la fa!:cade. È come me, la foglia. Come me.Albero, vita, respiro che appanna il cielo, casa, focolare, calore, famiglia, tana.Pelo dritto, coda fra le gambe, pupille dilatate, occhi socchiusi, chiusi, paralisi, o tremore. Potrai udire un capello cadere a cento chilometri di distanza, percepirai il movimento di un insetto alle tue spalle, ma non saprai fare unpiùno. Nooo, non lo saprai fare.Via, via, lasciatemi passare. Via, tutti, andati. Insieme, organizzati, giusto in tempo prima che arrivassequella cosa... Pensano che quella cosa si potrà placare solo col sangue, un sacrificio, un complotto, un insetto alle mie spalle, l'uomo sono io, cercano di scamparla sulla mia pelle, oh lontane le stelle! Trovavano poco sicuro imprigionarmi, ecco perché: se Quella arrivasse e mi trovasse prigioniero e Quelli le dicessero:ecco il tuo olocausto, e Quella rispondesse: Oh ma io preferisco te, cosa potrebbero fare? Sono furbi. Io, l'uomo. Non le danno possibilità di scegliere, lasciando qui soltanto me. Mio, il sangue. La pelle, le spalle.Avrebbero potuto, giustamente qualcuno obietta, lasciarmi qui, solo ed incatenato. E invece no. E sapeteperché? Perché sarebbero stati costretti a toccarmi, e gli facevano schifo la mia pelle, le mie spalle. M'hanno sempre odorato come il branco di cani odora un lupo, quelli. Loro, paura di me. Non è inverosimile?Paura-di-me.Mi giravano attorno, mi stavano sottovento. Avevano paura.Trama, o trema.Amare, scoprire, godere, superarsi, vincere, provare piacere in tutte queste cose: ecco la gente della cospirazione.Per questo hanno paura. Per questo pensavano che io non ne avessi, ed il prezzo per mantenere intatto il branco: me. Offrirmi, senza rimorso. M'immaginano nato in un luogo oscuro e vuoto, senza bisogni, cresciuto sano e sereno, senza paura. Che pensiero interessante, si sono costruiti, davvero. Hanno un così fitto e rassicurante dialogo, in continuazione, con tutte le loro illuminanti emanazioni. Io? Va bene, sia: non godo, non amo, ma neppure sono cresciuto in un vuoto buio e quindi ho paura. Tremo, non voglio morire, avete capito, maledizione? Quando nessuno se l'aspetta, al prossimo angolo, all'improvviso, volta.A casa, non mi ci troverà quella cosa.Degli uomini, sul ponte, oggi pomeriggio, appoggiati al parapetto. Uno ad un certo momento ha indicatoqualcosa, un punto in mezzo al cielo, nel frattempo la gente che passava alle loro spalle guardava ed annuiva, ed io... io non ho guardato. Mi fa orrore che si debba osservare per forza tutti ciò che uno squilibrato indica con un dito, qualsiasi cosa sia o non sia. O non sia. Sia, sono un asociale, un sociopatico, per questo mi gettano sull'altare del sacrificio. Pensano anche al mio bene. Ah! Ah! Ah! Rido, per tenermi caldo, per farmi forte.Devo farmi invece piccolo, altroché, invisibile, leggero come il fumo. Scodinzolare nell'aria sospesa sullestrade e sparire.Manca poco. Poco alla salvezza. Alla casa. Il portone. Aperto. L'ultimo che ne è fuggito non s'è neppure preso la briga di chiuderlo. Ma certo, avrà pensato: perché chiuderlo?non c'è più nessuno, qui che possaentrare a rubare. Ma... poteva costui ignorare che la vittima scelta dalla città gli abitava a fianco? No, non poteva non saperlo. E così m'ha lasciato l'ingresso aperto, scientemente: sapeva che nessun altro tranne me avrebbe potuto rientrare. Voleva facilitarmi, ma perché? Forse è deciso che sia quassù, nella mia stanza, l'appuntamento con quella cosa. Lì, io, ignaro di tutto, la dovrei aspettare? No. Sanno anche che lasciare aperto il portone è il modo migliore e più ingenuo per insospettirmi. È così: semplicemente quello ha dimenticato di chiuderlo, sem-pli-ce-men-te. Posso entrare, sì, sicuro. Posso. Per le scale. Piano. Lentamente.
Piano-piano, piano dopo piano. Entra e silenzioso scivola nella tua stanza, cerca di stare quanto più possibile aderente alle pareti ed ora striscia fino ad un posto sicuro. Non m'hanno voluto rinchiudere, quegli schiocchi. Accucciati. Sottalletto, no. Così, carponi, come un bambino, fino all'armadio, sì, l'armadio. Dentro all'armadio. Chiuditi. Dentro, così, si-len-zio-sis-si-mo, invisibile come l'uomo nero.

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog