La vicenda che segue è tratta dalle memorie che ha lasciato mio nonno materno Giovanni Battista. Nel 1943 comandava la Stazione Principale dei Carabinieri di Trento con il grado di Maresciallo Maggiore. L’8 settembre venne catturato dai Tedeschi e rinchiuso in un campo di concentramento improvvisato, in vista della probabile deportazione a Mauthausen. Riuscì a fuggire in maniera rocambolesca, assai più di quanto riesca a rendere il suo racconto scritto; soltanto dopo qualche giorno poté ripresentarsi al proprio posto senza correre pericolo di vita. Ho omesso alcuni nomi e reso certi passaggi più scorrevoli. Per il resto, questa è la sua voce di testimone.
Trento, 8 settembre 1943. Verso le ore tre della
notte, dopo una tremenda sparatoria con le mitragliatrici dei carri armati e
aver sfondato i cancelli d’ingresso, i soldati tedeschi penetrarono nel cortile
della caserma. Qui catturarono tutti gli uomini del Gruppo Carabinieri,
compreso il Tenente Colonnello Michele De F., due Capitani ed io, che comandavo
la Stazione di Trento Principale.
Fummo quindi trasportati con autocarri, assieme ad altri militari del presidio,
in un improvvisato campo di concentramento situato nell’aeroporto dello
stabilimento Caproni di Gardolo, distante cinque chilometri dalla città. Detto
campo era stato preventivamente circondato da filo spinato e presidiato da
sentinelle che avevano ordine di sparare a vista su chiunque tentasse la fuga.
Qui gli ufficiali tedeschi avevano fissato il quartiere generale, occupando gli
uffici dell’edificio.
Cosa assai ammirevole, numerosi cittadini di Trento e dintorni si presentarono
spontaneamente nei pressi del reticolato per chiedere ai prigionieri se avevano
bisogno di viveri o indumenti prima della prevista deportazione in Germania.
Mentre trascorrevo preoccupato le prime ore di reclusione, mi si presentò un’improvvisa speranza di salvezza grazie ad una conoscente che aveva dei figli militari. Tramite l’interessamento dell’ingegner T., padrone dello stabilimento, la signora riuscì a farmi recapitare una borsa contenente mele e uva sotto la quale era nascosto un abito civile. In una tasca interna trovai un biglietto in cui dava alcune spiegazioni qualora avessi voluto evadere. Mi recai allora in un bagno, mi tolsi la divisa che nascosi e indossai quell’abito, con qualche fatica perché mi stava piuttosto stretto. Come d’accordo, mi diressi con circospezione verso un’automobile che attendeva in mezzo al piazzale del campo e occupai un posto sul sedile posteriore. Ero ben conscio del pericolo cui andavo incontro, ma al tempo stesso abbastanza fiducioso: l’ingegnere aveva ottenuto dal comando tedesco un lasciapassare personale che gli permetteva di entrare e uscire a piacimento. Così, quando salì al mio fianco, mi rassicurò con lo sguardo ed io, tenendo il cappello ben calato sugli occhi, cominciai a fingere di scrivere su un foglio tenuto sulle ginocchia. Arrivati al vicino sottopassaggio, le sentinelle armate poste ai due lati dell’ingresso fecero cenno di passare senza interessarsi a me. In quel momento la paura fu veramente tanta, da trattenere il respiro. Usciti finalmente dal campo, chiesi di essere accompagnato fino nelle vicinanze di Trento.
Circolando per la città incontrai il maresciallo
P., mio dipendente, vestito con abiti borghesi, il quale non era stato
arrestato poiché, essendo coniugato, alloggiava fuori caserma. A un certo punto
vedemmo appeso a un muro un manifesto recante la seguente scritta: “Chi ha
obblighi militari deve presentarsi alle autorità tedesche entro le ore 17,
altrimenti sarà passato per le armi sul posto”.
D’intesa scegliemmo di darci alla montagna, in modo da guadagnare tempo e
riflettere sul da farsi. Frettolosamente comprammo del pane e qualcos’altro da
mangiare, poi prendemmo un sentiero poco battuto lungo il quale camminammo per
diverse ore. Giunti a un cascinale sperduto fra i boschi, ci fermammo a
chiedere dove potevamo dormire. Ci fu indicato un grosso mucchio di fascine
sotto un tetto dove, con una piccola coperta ciascuno, trascorremmo la notte.
La mattina seguente, il 9 settembre, ci presentammo al proprietario del cascinale per ricevere qualche informazione circa la situazione di Trento. Siccome era nostra intenzione lasciar trascorrere qualche giorno, gli domandammo di procurarci un lavoro. Ci consegnò allora una falce ciascuno per tagliare la punta del granoturco all’altezza della pannocchia, affinché maturasse più in fretta. Poiché finimmo troppo presto, su nostra richiesta ci diede una zappa e un sacco con l’incarico di raccogliere patate in un altro podere. Verso mezzogiorno il contadino ci chiamò per offrirci della polenta appena cotta con crauti e una fetta di cotechino. Oltre ai familiari c’era a pranzo anche una distinta signora che abitava nell’attiguo fabbricato civile, la quale, mentre mangiavamo, si mise ad inneggiare all’occupazione tedesca. Poiché aveva capito che eravamo forestieri, temendo che potesse sospettare di noi e magari denunciarci, decidemmo di allontanarci al più presto. La moglie del contadino ci offrì due uova e una zainella che pagammo. Prendemmo nuovamente la via dei monti e, dopo aver marciato tutto il pomeriggio, arrivammo verso sera nei pressi di Caldonazzo, in Val Sugana. Qui ci informammo se i Carabinieri presidiavano ancora quella Stazione. Avutane conferma, ottenemmo da loro l’indicazione di un nascondiglio dove ci rifugiammo per dormire, stesi in terra su due materassi.
Il giorno successivo comperammo delle maglie e alcuni generi alimentari, quindi ripartimmo dirigendoci verso Vicenza, poiché avevamo udito che in paese risiedeva un ufficiale nazista addetto ai lavori tecnici. Giungemmo così sull’Altopiano d’Asiago dove ci imbattemmo in numerosi altri militari italiani che, sfuggiti alla cattura dei Tedeschi, vagavano sbandati e senza meta. Da alcuni di loro venni a sapere che il Comando di Legione a Bolzano era stato occupato e tutti i Carabinieri deportati in Germania. Nel ristorante del rifugio in cui sostammo per rifocillarci un poco, mi capitò sottomano un giornale su cui lessi che i Carabinieri di Trento erano stati restituiti alle proprie caserme per prestarvi servizio. A questa notizia, il mio collega P. ed io comprendemmo che era giunto il momento di riprendere i nostri posti.
Io mi presentai quanto prima al Comandante di
Gruppo Tenente De F. il quale, dopo un breve interrogatorio in merito
all’assenza dal reparto, mi reintegrò nell’incarico di Comandante della
Stazione. Entro le successive quarantotto ore tutti i Carabinieri furono
riconsegnati alla caserma di Via Barbacovi per riprendere l’attività di
protezione della popolazione e fare osservare le leggi italiane secondo le
prerogative loro assegnate. Tale disposizione era stata invocata e ottenuta
grazie al tempestivo intervento del Prefetto B. presso il Comando Supremo
Tedesco di Bolzano, in virtù di una legge internazionale disposta dall’Alta
Corte di Giustizia dell’Aja. L’Arma dei Carabinieri prestava infatti servizio
in territorio occupato dal nemico e quindi sottratto alla sovranità italiana.
Il mio collega P., che pochi giorni prima aveva perso durante un bombardamento
la moglie e il figlioletto di tre anni, si allontanò invece per destinazione
ignota. Non lo rividi più.
(Prima pubblicazione: 8 settembre 2008. La fotografia, scattata a Trento nell'aprile del 1942, ritrae nonno “Tino” che tiene in braccio la mia mamma.)