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Trentodoc: facciamo la rivoluzione… delle parole

Da Trentinowine

rivoluzione Uffa che barba, che barba, che noia. Massì, che noia. Ma che noia davvero, ritrovarsi qui  a scrivere sempre le stesse cose. Una noia soprattutto per chi legge.  Immagino. Ma insomma, va così. E di sicuro non per colpa di questo modestissimo black blog corsaro. Dunque, questa mattina sulle Millebolleblog, leggo la punzecchiatura di Franco Ziliani, rivolta bonariamente ad un paio di colleghi. Colpevoli, si fa per dire, di aver usato ripetutamente la parola “bollicine”, a proposito della manifestazione pirotecnica con cui il Trentino ha celebrato il suo Trentodoc. Naturalmente, e non c’è nemmeno bisogno di scriverlo, con Ziliani sono d’accordo su tutta la linea. Anche se mi pare che il problema, a questo punto, non sia tanto dei giornalisti, che fanno il loro mestiere e che a volte quando scrivono un pezzo hanno bisogno di evitare noiose ripetizioni e sgradevoli assonanze. E quindi cercano di variare un po’ il lessico e il vocabolario. Il problema è un altro, e lo abbiamo seganalato fino allo sfinimento in tante occasioni. Ultima, il sermoncino che un paio di giorni fa ho dedicato al vice presidente dell’Istituto di Tutela, Carlo Moser. E’ da lì che bisogna partire: dalla rivoluzione delle parole, dal capovolgimento del lessico famigliare. Dei trentodocchisti e dei trentini. E la cosa, però, si mette subito tutta in salita. Il vice presidente, nell’intervista che cito nel post precedente, sostiene che le “bollicine piacciono ai giovani”. E la Camera di Commercio, insieme a Provincia e Marketing SpA, da qualche anno mette in piedi una graziosa manifestazione che si chiama, appunto, “Bollicine su Trento”. Non “Trentodoc per tutti” ma “Bollicine su Trento”. E’ chiaro anche al più spovveduto dei marchettari di provincia che bisognerebbe prenderli a mazzate. Quelli che questa orribile dicitura se la sono inventata e anche quelli che continuano ad usarla. Ma andiamo ancora più in là. Una recente indagine demoscopica (novembre 2011), ci consegna una realtà disarmante: solo il 23 % degli italiani conosce, e sa cosa significhi (spero), la parola Trentodoc. Temo che se l’indagine avesse messo il focus sul Trentino, il risultato sarebbe stato ancor più deludente. E non lo dico a caso. E’ una convinzione frutto di decine e decine di mie personali peregrinazioni per i locali del Trentino: otto volte su dieci alla mia richiesta di un Trentodoc mi si risponde in vario modo, ma sempre negativamente. Chi semplicemente sa cos’è ma non lo tiene in casa. Chi ce l’ha ma non lo vende (a bicchiere), chi cerca di dirottarmi su Franciacorta. E infine, i più, quelli che mi propongono un Prosecco. Di solito nella variante vezzeggiativa/diminutiva di prosecchino. Ieri, lo racconto perché mi sembra un esempio da manuale di questo andazzo, ero a pranzo insieme ad un produttore trentino, uno di quelli bravi (di cui non faccio il nome, ma fidatevi: bravo al limite dei tre bicchieri; mai ricevuti ma meritati, ma tanto lui se ne infischia. Così dice). Il ristorante è uno di quelli con molte pretese, dove ti aspetti che il titolare, non il sommelier che gira per i tavoli, ma il titolare quando parla con i clienti sappia di cosa sta parlando. Insomma non un ristorante Cheap ma un ristorante Cool (consentitemi lo scivolone yankee, ma voglio farmi capire anche dai giovani leon(cin)i del Trentodoc che hanno studiato negli States). Cinquantaquattro euro per due primi, una bottiglia di minerale (eravamo entrambi in macchina quindi a rischio patente) e due caffè. E’abbastanza Cool, almeno il prezzo? Ochei. Verso la fine del pranzo, la signora che dirige il traffico nel locale (insomma l’ostessa), si avvicina al mio amico produttore, di cui è già cliente, e ne approfitta per fargli un ordine. Un cartone di questo, un cartone di quell’altro. E così via. Alla fine, con un sorriso complice e ammiccante – che voleva dire: lo sai che questa è quella che preferisco fra tutte le tue bottiglie -, gli si rivolge esattamente così: “Portami anche tre cartoni del tuo buonissimo prosecchino”. Voleva dire Trentodoc. Ma ha usato la parola prosecchino. A quel punto, io ho buttato gli occhi sotto il tavolo e sono uscito a gambe levate, con la scusa di fumare una sigaretta. Non so come sia andata a finire. Se la signora fosse stata un signore, forse sarebbe finita a botte. Il mio amico produttore è uno di quelli che si fanno saltare subito la mosca al naso. Ma dinnanzi ad una signora, come d’incanto, diventa un gran signore anche lui. Potenza misterica delle femmine, anche quando zoppicano con le parole e con i concetti. Qualche tempo fa – forse anche questa la ho già raccontata da qualche parte, ma la ripeto -, in conferenza stampa chiesi all’assessore Mellarini, quale fosse a suo avviso la ragione della debolezza di questo marchio/brand/denominazione. Lui chiaramente infastidito, mi rispose così (traduco dal dialetto perché in Trentino anche le istituzioni di solito parlano l’idioma locale): “Senti, abbiamo appena vinto un gran premio a Londra per la nostra ultima campagna comunicativa. A questo punto non posso certo essere io ad indossare il grembiulone con la scritta Trentodoc e ad andare in giro per le fiere. Magari potresti farlo tu…”. Risposta stizzita che tagliò sul nascere ogni possibilità di ragionamento ragionevole. A fine conferenza stampa, lo presi sotto braccio e amichevolmente gli consegnai un suggerimento (che come sempre non ascoltò): usa un po’ di soldi – gli dissi – per fare formazione. Per istruire al territorio ristoratori, baristi e tutti quelli che il territorio lo vendono ogni giorno ai trentini e ai turisti. Per farlo basterebbe destinare l’1%, e anche meno, di quella vagonata di soldi e di milioni che viene spesa ogni anno dalle agenzie della promozione istituzionale trentina in giro per il mondo. E che però, nonostante tutto il can can che fanno, non sono ancora riuscite a fare la rivoluzione (low cost) delle parole. Nemmeno in Trentino, dove la parola prosecco(ino) è utilizzata abitualmente come sinonimo di Trentodoc.

PS: Mentre sto per postare questo innocuo pensierino natalizio, leggo sul blog un commento firmato da Lanfranco: oggi sulle pagine della Gazzetta il Checco mondiale (produttore di Trentodoc e padre del vicepresidente di Trentodoc) si fa fotografare insieme ad uno sciatore mentre allegramente stappano una magnum di Champagne sulle nevi di Andalo (Trentino). Non ho parole. Cotanto padre e cotanto figlio. Non basta solo una rivoluzione lessicale, qui urge anche una rivoluzione fotografica. Urge, ma proprio urge. Il lavoro si prevede lungo. Ma proprio lungo.

Anche Cosimo sbaglia. E chiede subito scusa ai lettori e al Checco Mondiale. Interpretando male un commento di Lanfranco, mi ero permesso una battutaccia. E questa volta era fuori luogo: nella foto pubblicata sulla Gazzetta il nostro campione sta stappando una bottiglia del suo Trentodoc (finalmente), anche se poi nella didascalia la bottiglia viene indicata come Champagne. Questa volta il pressapochismo confusionario, quindi, è da attribuirsi solo ai giornalisti e ai blogger. I trentodocchisti non c’entrano. Grazie, naturalmente, a Roberto Anesi che ci ha prontamente segnalato questa topica natalizia.  Potere del Web questa capacità autocorrettiva dell’informazione condivisa.


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