TriBeCa Film Festival 2013

Creato il 08 maggio 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Qualche mese fa, in pieno delirio pre-Oscar, mi è capitato sovente di incappare in Robert De Niro, allora in promozione selvaggia per Silver Linings Playbook. Se non era per strada – non è inusuale incontrare Bob a Soho – era su qualche rivista, o sul web. Persino il ragazzo con cui stavo tentando di avere un flirt rassomigliava vagamente a De Niro, però più Ungherese, più alto e più bello e con gli occhi blu.

Il punto di non ritorno di questa insalubre sovraesposizione penso giunse con l’apparizione del vecchio toro scatenato in qualche programma di prime-time idiota. Durante un talk show di altissimo livello, il vetusto Bob scoppiò a piangere, non si sa bene perché, forse il bourbon era tiepido, fatto sta che la maggior parte delle mie amiche etero trovò questo exploit estremamente commovente.

A me fece senso.

Mi sapeva di posticcio ed era indicativo di un trend ormai innegabile. Avevamo perso Robert. Andato, caput, adieu.

Da artista totale quale è, De Niro ha diligentemente deciso di non fare di questo stato di deriva professionale un evento isolato. Diciamo pure che quello che sta accadendo alla sua carriera si può applicare, in un abbraccio semiotico tenerissimo, a tutte le iniziative nelle quali l’attore e regista risulta attualmente coinvolto. Esempio ne sia l’appena concluso TriBeCa Film Festival.

Ricordiamo ai non adepti che il TFF, per gli esterofili amanti degli acronimi, nasce, su iniziativa di Robert De Niro e altri newyorkesi d.o.c, all’indomani dell’11 Settembre, per ridare vigore e impulso alla zona sud di Manhattan, e al quartiere di TriBeCa in particolare, area carissima al regista.

Era insomma il modo dell’industria dell’intrattenimento di fare un bel dito medio a tutti quelli che intendevano annichilire la città che non dorme mai.

All’inizio i risultati furono strepitosi ed esilaranti, e il TriBeCa Film Fest divenne una fucina ed un laboratorio di ricerca e investigazione estetica di un certo peso. Con gli anni, e con il rimarginarsi delle fatali ferite inflitte dal terrorismo alla città, la rassegna ha perso scintillio ed è ora in crisi conclamata. A nulla serve la moltiplicazione spasmodica di sezioni, sottosezioni, segmenti e quant’altro. Pare un sogno pensare di organizzare un Festival del Cinema che abbia al suo cuore davvero i film e non eventi di networking per pubblicisti iper-caffeinati o pretesti di marketing neppure mal celato?

Sintomo di una dislocazione identitaria non esclusivamente metaforica, il TFF si sta negli ultimi anni fisicamente allontanando dall’epicentro originario, e molte delle proiezioni e degli eventi collaterali avvengono ora nel quartiere più tradizionalmente “artsy” e mondano di Chelsea. C’e’ ancora una competizione al centro della kermesse, ma si tratta di titoli sgocciolati da altri eventi internazionali, c’è poca freschezza, soprattutto nella sezione Narrativa.

Le premiere vere e proprie, sempre e comunque al di fuori del concorso, si riducono a titoli di medio calibro, come ad esempio il pezzo forte di quest’anno: l’ennesimo capitolo – sono passati 9 anni dall’ultimo, ci tocca – della saga Before…, firmata da Richard Linklater, ormai un veterano dei debutti in festival di second’ordine. Dopo Before Sunrise e Before Sunset, il nuovo film con protagonista la coppia Ethan Hawke e Julie Delpy, Before Midnight, ritrae i nostri eroi alle prese con le delizie dell’esperienza genitoriale, insomma una premessa così irresistibile da far arricciare le estremità podaliche… A risollevare gli animi e non solo, ci pensa James Franco, che seppure immobile e inebetito, ha sempre un suo senso intrinseco, qui al Festival per presentare, in veste di produttore, The Director, un ritratto non poco sbilanciato e partigiano di Frida Giannini, mente e matita della maison Gucci, sponsor da anni del succitato adone.

Altra gemma da red carpet il documentario Lil Bub & Friendz, sul fenomeno web-felino Lil Bub, assieme a lui oggetto dell’indagine anche i vari Grumpy Cat, Keyboard Cat e via discorrendo. Lil Bub era presente alla prima in tutta la sua fiera morbidezza, accolto da orde di fotografi e da una summa teologica di sdilinquimenti e gridolini. Lo zenith delle pellicole fuori concorso si raggiunge con la presentazione-performance di Inside Out – The People’s Art Project, documentario simil engagé che ha seguito per un anno il poster artist francese JR in giro per il globo, fino alla titanica installazione conclusiva in Times Square. Parte del progetto anche il cineasta francese Mathieu Kassovitz.

Il TFF riserva poi ulteriori momenti di godimento elitista ai pochi fortunati avventori delle tavole rotonde, una delle più gustose di quest’anno quella che ha visto il rendez-vous tra due autori eccelsi: Darren Aronofsky e Clint Eastwood

Nonostante alcuni episodi interessanti e dovendo a forza di cose tirare delle somme, l’impressione è fondamentalmente pero una sola: anche per questo 2013, il TFF offre molta carne al fuoco, poche star e poco glamour. Detto questo, la mia personale esperienza di quest’anno si è rivelata niente affatto infruttuosa. Ho avuto la fortuna di vedere film molto forti e molto belli. Solo che non si è trattato di pellicole di narrativa. Tra i concorrenti in questa sezione spicca qualche titolo, come il rurale e molto rigoroso Hide Your Smiling Faces, resoconto dell’estate banale eppur trasformativa di due adolescenti americani o il colorato e molto politically correct, The Rocket, vincitore come miglior film.

Ma se qualcosa deve emergere con forza spropositata da quest’ultima edizione del Festival, certamente sarà la magnifica forma in cui versa lo stato della cinematografia documentaria americana. E deo gratias perché al solo pensiero che Richard Linklater sia davvero l’ultimo baluardo del Cinema Indipendente Americano, c’è da attaccarsi alla bottiglia.

In tutta franchezza, sono mesi che riscontro una certa tendenza nell’apprezzare più pellicole documentarie che di fiction. Il fatto che il cinema indipendente americano sia a corto di idee e di abilità è oramai una verità, non più un timore. Si sono spese miglia di parole per spiegare e caratterizzare la funzione etica prima ancora che estetica della scuola documentarista americana.

Ricordiamo che il paese manca di un sistema mediatico pubblico e nazionale, per cui molto spesso si è voluto vedere nella produzione di registi quale Michael Moore, giusto per citare un poster boy, una risposta dal basso a questa esigenza di controllo e denuncia che, in teoria, dovrebbe opporsi ad una visione puramente commerciale dei mass media. Insomma il documentarismo di scuola statunitense dovrebbe sopperire ad una deficienza in termini di copertura giornalistica da parte dei grandi network televisivi. Non dimentichiamo poi la condivisa venerazione per l’eroica figura del reporter d’inchiesta, carattere che trova la sua consacrazione in pressoché ogni declinazione dell’industria culturale statunitense, dal cinema al romanzo popolare al fumetto. Tutto questo per dire che in America c’è sempre posto ed attenzione per questa forma di linguaggio audiovisivo.

Il TFF in questo senso non si esime dal fornire una ben nutrita e variegata serie di titoli, ma sono naturalmente i film di denuncia politico-sociale a farla da padroni. C’è spazio per le grandi biografie: da Gore Vidal a Michael Haneke, ma i veri riempipista sono altri: Bridegroom parla della battaglia per il diritto alle nozze tra omosessuali, Gasland II continua la propria guerra informativa contro il fracking, un sistema di estrazione del gas altamente inquinante e pericoloso, e il vincitore della sezione documentari di quest’anno, The Kill Team, racconta la scomodissima vicenda di una colonna infame dell’esercito statunitense macchiatasi di crimini disumani.

Quello che esalta di questi film è non solo la forza degli argomenti, ma l’entusiasmo formale con cui vengono affrontati. Non si tratta di estroflessioni di dossier televisivi, sono pellicole di autori, con una voce, una visione, uno stile. In altri termini, quella volontà di ricerca e sperimentazione che sta disertando con troppa frequenza le nuove prove di fiction dei giovani registi statunitensi, trova rigoglio nell’attività di questo manipolo di documentaristi.

Come accennato, sono davvero tantissimi i film degni di nota, ma uno su tutti ha vinto il mio cuore e i miei occhi. Si tratta di Oxyana, debutto firmato da Sean Gunn, premiato al TFF come miglior regista esordiente.

Oxyana è un film notevolissimo, cupo e commovente, che quasi a riverberare la magnificenza delle zone in cui si svolge, scorre con tutta l’ineluttabile grazia mortifera della tragedia.

Al centro della storia le vicende degli abitanti di Oceana, piccolo centro del West Virginia, innestato tra le valli degli Appalachi, secondo la toponomastica del luogo: lo stupefacente complesso delle Blue Ridge Mountains. Difficile immaginare un luogo più maestoso e imponente. Zona una volta destinata alle operazioni dell’industria carbonifera, ora la cittadina è mestamente famosa come centro di smistamento e spaccio di oppiacei sintetici ad uso farmacologico, le cosiddette prescription drugs, la più famigerata delle quali, l’oxicodone, viene commercializzata con il nome di Oxycontin. Nulla più di una versione da laboratorio dell’eroina, l’Oxycontin ha vissuto negli ultimi dieci anni una meteorica ascesa all’Olimpo delle droghe del jetset, includendo tra i suoi sfortunati estimatori molte star di Hollywood, da Courtney Love a Kelly Osborne a Heath Ledger, mortone di overdose nel 2008.

Ma Oxyana non parla dei lucky few, piuttosto punta lo sguardo su di una comunità intera, devastata dall’utilizzo diffuso della sostanza. Un tempo la popolazione di Oceana era composta da laboriosi minatori, fieri e probi piccoli monumenti all’American Spirit che ancor tiene assieme i pezzi malandati di questo paese, fino a quando l’oxicodone entra con forza nelle abitudini dei cittadini proprio attraverso il sistema sanitario locale.

Gli uomini sono impiegati nelle miniere allo stremo delle forze, per contrastare la fatica e i dolori dovuti a turni allucinanti, i medici iniziano a prescrivere loro questi miracolosi nuovi antidolorifici. L’industria carbonifera collassa, il lavoro si eclissa, ma la dipendenza subitanea indotta dal farmaco ha ormai affondato gli artigli ed allungato i tentacoli anche sulle nuove generazioni. Oceana si svuota, di vita prima che di ogni altra cosa, la noia e il senso di inutilità si impossessano dei genitori prima e dei figli in seguito. Interi nuclei familiari si trovano a condividere gesti e destini dettati dal disonorevole vizio. Molti di quelli che decidono di non abbandonare Oceana ascrivono la malaugurata sorte del paese al cosiddetto ‘fatalismo degli Appalachi’. Già in passato, dal tempo del furto alle tribù indiane, queste terre furono depredate e i suoi abitanti vittima di raggiri, perché mai dovrebbe cambiare qualcosa proprio ora?

Oxyana restituisce tutta la crudezza e la sconvolgente umanità di questa vicenda, senza cadere in moralismi o affettazioni da direct cinema avvizzito. Quello che il bravissimo Sean Dunn offre non è una verità assoluta, ma una storia, a tratti difficilissima da sostenere, ma in ogni caso comunque una prospettiva soggettiva. L’autore non si eclissa, rimane partecipe del dramma che rappresenta, accompagna le dignitose confessioni dei protagonisti, il suo sguardo commosso e rispettoso non li abbandona, neppure quando il dolore si fa accecante.

L’epidemia di oxycodone, ultimo trionfo della pill culture che affligge pestilente gli Stati Uniti, non ha mai trovato un reale veicolo di apparizione al grande pubblico. Non ci sono state sino ad ora film o serie TV barocche e glamour alla Breaking Bad a rendere conto dell’effetto sconvolgente che tale sostanza ha avuto sulla vita di milioni di persone. Oxyana ha il merito innegabile di aprire gli occhi su di un fenomeno purulento e pericolosissimo che si estende ben aldilà dei confini statunitensi, ma questo onorevole intento informativo non scalfisce l’aspetto fondamentale di questa pellicola, ovverosia il fatto di essere un film diretto con una maestria inconsueta.

L’equilibrio espositivo raggiunto da Dunn non si riduce a mero minimalismo, tutt’altro, la materia così potente del film si innesta su di una controparte formale che rende giustizia ed omaggio alla bellezza mozzafiato delle zone in cui si consumano le esistenze dei protagonisti. Sia ben chiaro che non c’è spazio per alcun ornamentalismo.

Abbiamo piuttosto a che fare, per così dire, con una trasmigrazione estetica necessaria tra i vari livelli della rappresentazione. E non potrebbe essere altrimenti. Raccontare della bellezza di queste valli e del carattere tragico delle sue genti, senza che neppure una scheggia di questa magnificenza e di questa inevitabilità intacchi lo sguardo pare impresa davvero impossibile.

Stefania Paolini


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