Ebbene si, mi piace il vecchio teatro, quello di un tempo, prima dell’avanguardia del Living, prima di Grotowski, quello delle parti in commedia, degli stereotipi esemplari dei tipi umani: così, distrattamente, ho seguito la logora liturgia del confronto tra i due candidati, officiata da un’altrettanta logora rivisitazione del mai abbastanza rimpianto Jacobelli.
Sono stata premiata: come nel teatrino del Pincio, l marionette si menavano fendenti con gli spadoni di latta, o come in una di quelle risse di strada nelle quali i due si fronteggiano, raccomandando ai compari “tienimi, ma tienimi eh, che sennò l’ammazzo”, a ripetere a memoria il loro copione ormai stantio, ché succede che gli attori diventino degli impiegati poco motivati.
Colpa loro che si prestano a mettere in scena un teatrino ridicolo che diventa oltraggioso quando si alza il palco sulle macerie, colpa del pubblico che vuole rassicurarsi sull’esistenza in vita della democrazia tramite il riprodursi di Tribuna elettorale.
Ma se i duellanti ormai sfiniti dovevano interpretare due personaggi in cerca d’autore, con lo scontro tra generazioni, padri e figli nel millenario contenzioso tra vecchio e nuovo, paradossalmente era il giovane a testimoniare – come d’altra parte è sempre successo – di quella indole conservatrice che spinge chi è arrivato da poco a tenersi stretto quello che ha ereditato senza fatica, beni, privilegi, pregiudizi, garanzie, conquiste di altri. Lo dice bene Tolstoi: “Si pensa comunemente che di solito i conservatori siano i vecchi, e che gli innovatori siano i giovani. Ciò non è del tutto vero. Il più delle volte, conservatori sono i giovani. I giovani, che han voglia di vivere ma che non pensano e non hanno il tempo di pensare a come si debba vivere, e che perciò si scelgono come modello quel genere di vita che v’era prima di loro”.
La debolezza di Bersani, il suo impaccio, l’accento emiliano che evoca tempi più ruspanti e opulenti, l’abito della domenica, sono più “simpatici” della burbanzosa sicurezza del tronista, della sua toscanità da ciclone di Pieraccioni, del suo disincanto esibito come una virtù realistica.
Certo siamo proprio malmessi se ci dobbiamo accontentare, per sognare, di una banca di partito, di un futuro che ci garantisca di arrivare a fine mese, dell’ostensione di valori da miss Italia, la pace nel mondo e fabbriche che emanano profumi, e di una eredità di idee e valori talmente rimossa e tradita da schierare da una parte un attempato funzionario che invece di nutrire sensi di colpa per i lavoratori oltraggiati, si pente con parroco dello sciopero dei chierichetti, dall’altra un avanzo viziato dell’attrezzatura craxiana, rampante e arrogante nell’esibizione del pragmatismo cinico come fosse una virtù politica.
Chiunque dei due vinca segna la sconfitta di un partito, anzi della memoria di una forza che era nata tra luci e ombre, per rappresentare gli sfruttati che volevano avere voce, i sommersi che esigevano riscatto. E che oggi dovrebbe interpretare e testimoniare le ragioni degli operai dell’Ilva e dei cittadini di Taranto, dei medici e del personale degli ospedali rapinati e dei malati espropriati di speranza e cura, degli insegnanti umiliati e degli studenti depredati del diritto allo studio, diventati uguali nella collera e nella rabbia contro le disuguaglianze e che ieri sera non erano presenti su quello schermo.