Tra i pochi lavori cinematografici che ci hanno lasciato realmente dubbiosi, al 26° Trieste Film Festival, si può annoverare senz’altro At Home (in originale Sto spiti) di Athanasios Karanikolas. E ciò non perché non si scorgano intenzioni buone, forse anche ottime, in un soggetto le cui potenzialità sono evidenti, ma perché la resa filmica finisce per oscillare tra la noia e una rappresentazione eccessivamente statica di determinati conflitti sociali/interpersonali. Inserito nel concorso lungometraggi, il film del regista greco parte bene nel delineare i rapporti di forza all’interno di una famiglia della medio-alta borghesia, apparentemente coesa e solidale, laddove i problemi di salute cui va incontro l’affezionatissima cameriera Nadja finiscono per rivelare, però, una serie di comportamenti ipocriti; ed è da quei comportamenti che la reale natura del loro rapporto verrà fuori, implacabilmente.
Oltre a una matrice etica non disprezzabile, è la prova dell’attrice protagonista Maria Kallimani, nei panni di Nadja, ad imporsi positivamente all’attenzione. Ammirevoli sono, per esempio, l’espressione del volto e il movimento nervoso delle mani esibiti dalla concentratissima interprete, nella scena posta verso la fine che la vede attendere una qualsiasi reazione emotiva, da parte di quegli ex datori di lavoro sempre più imbarazzati e consapevoli del cinismo, che ne ha guidato fino ad allora le scelte. Detto questo, cominciano i problemi. Un po’ perché il resto del cast, decisamente ingessato e poco espressivo, non sembra accompagnare molto l’intensità da noi ravvisata nella protagonista. Un po’ perché la regia stessa, fin troppo compiaciuta, sembra ben presto adagiarsi in una riproposizione di tempi morti e in una contemplazione statica dei soliti luoghi, resi teatro della vicenda, così da suggerire l’impressione di un vezzo autoriale più che di qualcosa realmente funzionale alla descrizione d’ambiente. L’insistere sulla bella vista dell’Egeo che si gode dalla ricca villa, così come il pensiero dei protagonisti costantemente rivolto a pranzi, aperitivi e programmi di cucina in televisione, dopo un po’ vengono a noia; rischiando pertanto di essere caricaturali, ma senza quel mordente che renderebbe la stilizzazione di certi atteggiamenti un utile complemento alla critica sociale, che pure si percepisce nel plot.
Stefano Coccia