Per quanto al Trieste Film Festival vi siano vetrine ottimamente concepite, per i lavori più interessanti dei cineasti italiani, è raro che uno di questi faccia capolino addirittura nel Concorso Documentari. Lì già in selezione arrivano opere di livello notevole, come si può intuire dalla scrematura stessa: siamo riusciti a vedere gran parte dei nove documentari in concorso, quest’anno, e non ve n’era uno che non avesse qualcosa da dire. Merita ancora di più una segnalazione, pertanto, l’implicito riconoscimento che è toccato ad Internat, unico film italiano in concorso. La proiezione del doc di Maurilio Mangano è stata peraltro seguita, a Trieste, da un Q&A col pubblico particolarmente intenso. Anche questo a dimostrazione dell’interesse creatosi attorno a tale evento cinematografico.
Siciliano di origine, Maurilio Mangano è uno che la Georgia ha avuto modo di conoscerla bene, in questi anni. E tali esperienze di vita si sono coagulate in un ritratto ambientale e umano di rara intensità. Devono essere servite tanta pazienza ed empatia per entrare realmente in sintonia con le persone, le famiglie, che sono al centro di questo racconto: tutta gente che vive in esilio, lontano dalla loro terra e dalle case che avevano, per colpa di uno dei conflitti più brutali e cruenti, che abbiano insanguinato i paesi dell’ex Unione Sovietica dopo il crollo della precedente unità statale. Stiamo parlando della Georgia. E più in particolare del conflitto etnico tra georgiani e abcasi combattuto tra il 1992 e il 1993, che portò alla violenta secessione della stessa Abcasia, la cui indipendenza di fatto è stata poi riconosciuta dalla Russia e da pochi altri stati al mondo.
I ricordi della vita che si conduceva a Sukhumi, capoluogo della regione e un tempo florida città sul Mar Nero. Le tavole imbandite in cui si brinda e si celebrano i membri della famiglia scomparsi in quella guerra. Lo squallore dei caseggiati (“Internat”, per l’appunto) in cui gruppi di profughi sono stati relegati provvisoriamente, così si diceva, per poi restarci innumerevoli anni. Il modo un po’ diverso di guardare al passato delle donne e degli uomini. Gli episodi più drammatici della recente storia georgiana raccontati dagli adulti ai più piccoli, che in quella condizione precaria ci sono nati. In Internat è confluito un po’ tutto questo, assieme a preziosi materiali di repertorio, per dar vita alla dolente ricostruzione di uno stile di vita falsato all’origine, nonché delle speranze finora illusorie di chi vorrebbe, un giorno, tornare a casa.
Stefano Coccia