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L’operazione “Alba dell’Odissea”, dopo una settimana, non ha ancora uno scopo ben definito. Per diversi giorni, neanche un comando riconoscibile. Il passo indietro degli Stati Uniti (Obama: “saremo un partner tra i tanti”) ha accentuato il senso di smarrimento dell’Unione europea. Ma l’Europa può esistere soltanto attraverso burocrati che misurano la lunghezza dei cetrioli o stabiliscono che percentuale di cacao deve avere il cioccolato? A distanza di settant’anni sono ancora inascoltate le parole di Altiero Spinelli sulla necessità di realizzare una politica estera comune mettendo fine alle “politiche nazionali esclusiviste”. La contrapposizione è la solita: Berlino contro Parigi. Con i tedeschi freddi nei confronti di un intervento del quale non riescono ad intuire i vantaggi politici, né quelli economici. Ma questo è soltanto uno dei motivi di frizione. C’è anche lo scontro tra Francia e Italia, con il protagonismo di Sarkozy e l’esprit de grandeur d’Oltralpe. Il passaggio delle basi italiane sotto il comando francese, in assenza di un coordinamento della Nato, avrebbe rappresentato un frustrante ridimensionamento del ruolo dell’Italia, oltre che un’intollerabile forzatura nei confronti dell’intera comunità internazionale. Difatti, alla fine Sarkozy ha dovuto accettare l’affidamento della regia delle operazioni alla Nato, anche se rimane ancora poco chiaro lo schema operativo.
Il difetto di leadership si accompagna con la confusione della strategia. Quali sono gli obiettivi della missione? La protezione dei civili, o anche un sostegno logistico all’avanzata dei ribelli verso Ovest? È stata esclusa la “caccia” a Gheddafi: l’opposizione libica rifiuterebbe un’ipotesi che non contemplasse un suo impegno diretto per la destituzione del rais. E comunque, se si dovesse muovere guerra a tutte le dittature o a tutti gli Stati che non rispettano i diritti dell’uomo, la scelta su chi invadere per primo sarebbe vastissima. A cominciare dalla Cina. Che per adesso resta alla finestra con Russia e India, paesi con i quali condivide il disappunto per i bombardamenti. Se obiettivo dell’azione militare non è l’eliminazione del regime, può esserlo il suo contenimento? Magari favorendo una divisione della Libia tra una parte orientale (Cirenaica) da affidare ai ribelli e una occidentale (Tripolitania) da lasciare in mano a Gheddafi? Sulla scorta dell’esperienza vissuta ai tempi della guerra del Golfo, quando si permise a Saddam Hussein di risollevarsi dalla sconfitta militare, una soluzione del genere convince poco la “coalizione dei volenterosi”.
C’è poi la scomodissima posizione italiana, con i tentennamenti dovuti all’imbarazzo di chi, fino a qualche giorno fa, ha baciato la mano del dittatore e con il conflitto latente tra le forze di governo (la contrarietà della Lega e il “troppo entusiasmo” del ministro Larussa). L’impressione è che ci sia stato un iniziale errore di valutazione, una fiducia eccessiva nel declino di Gheddafi, che aveva fatto sperare in un finale di partita indolore, simile a quello di Mubarak e Ben Ali. Proprio nel momento in cui il crollo del regime sembrava prossimo, è mancata però un’efficace azione diplomatica internazionale che impedisse l’isolamento dell’opposizione libica e la sottraesse alla ritorsione governativa. Soltanto dopo il fallimento della spallata interna, la comunità internazionale ha preso una posizione più netta. Ma la democrazia è esportabile? C’è stato un tempo in cui si pensava di poterlo fare “sulla punta delle baionette”. Poi ci si è resi conto che si trattava di un’utopia.
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