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TRON: Legacy (2010)

Creato il 03 gennaio 2011 da Elgraeco @HellGraeco
TRON: Legacy (2010)

Prima di tutto, qualche cifra per capire la portata dell’evento TRON: Legacy: 300.000.000 di dollari di budget stimati, tredici dei quali esclusivamente spesi in guardaroba.
Tredici milioni investiti in vestiti. Ci pensate? Un’enormità.
E, in tutta onestà, non so se siano soldi ben spesi.
Certo, le tute fanno il loro effetto. Nere, aderenti e luminescenti. Eh, sì, perché le luci dei vestiti di Olivia Wilde, Jeff Bridges (due volte) e Garrett Hedlund, sono autentiche, e non inserite in post-produzione con la CGI.
Ma, al di là dell’effetto cromatico, stiamo comunque parlando di una cifra faraonica messa a disposizione per rinverdire un classico (?) della sci-fi anni ’80 che al cinema non aveva conosciuto tanto successo; così poco, anzi, da essere quasi un flop.
Diciamoci al verità, TRON non è mai stato l’idolo delle folle e dei bambini.
E la colpa, secondo me, è del colore nero.
Non precisamente un sogno, per i bambini, me compreso, starsene in un mondo di luci sgargianti, sotto una notte perenne.
Per gli adulti, al contrario, tutto ciò è stylish all’ennesima potenza. E hanno anche ragione. In un mondo così, fatto a misura di paraculo del  nightclubbin’, l’adulto è nel suo habitat naturale.
Ora, va bene la nostalgia, ma la sicumera sfoggiata dalla Disney in quest’operazione nostalgia è tanto invidiabile quanto folle.
E poi, sarebbe in 3D.
Lo sapete, basta ficcarci dentro il numero 3 e la lettera D e il cinema si riempie. Forse.
Alcuni siti già si sperticano con titoli spassosi: la febbre di TRON contagia gli U.S.A.
Certo, certo… ma qui siamo in Italia.

TRON: Legacy (2010)

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Once were Rebels

A vedere i voti su IMDb, le dieci stelle si sprecano.
Da un lato, li capisco pure. La trama non c’è. In linea, quindi, col primo capitolo.
Perché, è inutile girarci intorno. Non c’è una cazzo di trama che sia una. C’è un riciclo, fatto con più gusto e più soldi.
E c’è un regista che pare abbia diretto solo videoclip, ma in realtà episodi di serie televisive, e che ora sta dirigendo anche il remake di The Black Hole, che è stato ricoperto da una valanga di quattrini.
Quattrini spesi bene ovunque, persino in Daft Punk, che firmano la colonna sonora, tranne che in sceneggiatori.
Oppure devo credere che l’intreccio lo peschino dal cappello magico coi bigliettini? E che lo compongano in ordine casuale? Ovvero, come viene viene?
Qualunque cosa vogliate credere, il film è un’enorme spottone pubblicitario per la Ducati, in primis. E, in secondo luogo, per la Ducati.
Insomma, non si può prescindere da una buona moto.
Ciò che nel primo film è lungimiranza, circa il fenomeno della pirateria digitale legata alla diffusione della rete telematica, qui è un dato acquisito, scontato, quasi ovvio nella persistenza ineluttabile del crimine.
La ENCOM è la compagnia di software più figa al mondo che di fa ciulare il sistema operativo di ultima generazione, più figo del mondo, dal suo maggiore azionista, figlio di papà (Jeff Bridges), il quale, giovane, ricco e indisciplinato, perché la ricchezza e il potere gli sono piovuti addosso senza fatica, trova sia più logico fottere la propria compagnia diffondendo il sistema in internet, pochi minuti prima della presentazione globale, procurando all’azienda qualche miliardo di dollari di danni d’immagine perché… paparino avrebbe voluto così.

TRON: Legacy (2010)

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TRON, questo sconosciuto

Questo è il livello del plot. Senza fronzoli.
E, il suddetto paparino, che fine ha fatto?
Eh, sforzatevi… è sparito da una ventina d’anni, ma dove?
Nel mondo virtuale dove, in tutta franchezza, un cervellone del computer come lui ha sempre trovato che vivere fosse più congeniale: il mondo di TRON.
Anche qui, come il primo capitolo, il nome del film corrisponde al relativo programma guardiano e anche qui, come da tradizione, esso è un pretesto o poco più. Perché il vero protagonista si chiama Flynn, per due volte, padre e figlio, e si chiama CLU, l’antagonista, il programma al quale Bridges/Flynn stava lavorando nel primo capitolo.
Interessante la scelta, dettata da esigenze di continuity, di attribuire sia al programma CLU che al suo creatore Flynn, medesime sembianze, ovvero Jeff Bridges.
Solo che i programmi non invecchiano come gli umani. Quindi, per interpretare CLU, Bridges è stato stirato virtualmente di una ventina d’anni fino a raggiungere l’età apparente di trentacinque anni.
Ed è ben realizzato, come trucco, finalmente.

TRON: Legacy (2010)

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Quorra. And this is over.

E i dettagli? A parte lo stylish a profusione? Com’è strutturata questa società virtuale? Quanto è grande questa megalopoli nera? Perché i programmi lasciano che un loro simile li sottometta senza fare una piega? Qual è l’esatta natura degli umani, i creativi, che entrano nella macchina? Perché i programmi li adorano come fossero divinità? Da dove trae energia il sistema di questo film, visto che il protagonista ci entra, fino a prova contraria, attraverso un computer spento situato in uno scantinato abbandonato?
Misteri della fede. O della non-storia di TRON.
Credetemi, è una non-storia. Talmente indifferente da non suscitare neanche sdegno per gli inevitabili cliché inseriti dagli sceneggiatori per starsene tranquilli durante la proiezione, come fossero airbag per lo spettatore medio decerebrato.
E poi, c’è Quorra (Olivia Wilde). In tuta attillata. Nera, con le luci e il cerchietto sulla schiena. E i capelli alla Valentina di Crepax. E il divano sul quale si mette comoda. E se ne sta lì a osservare i due Flynn, padre e figlio, che ciarlano, e non dice nulla perché se lo può permettere.
Perché esiste, nel mondo di TRON, per essere contemplata. Un tempo non lontano si sarebbe detto arte in movimento. Perché lei è viva.
Poi è anche al centro della non-storia, ci mancherebbe. Solo che questo dettaglio tende a sfuggire di mente.
Uno la vede, in 3D e senza, e resta confuso. E a stento si ricorda dell’inseguimento in moto, azzurre e gialle, sbrilluccicoso, che non rievoca la geometrica e inesorabile linearità del primo, ma deborda in scie che si estinguono, per tornare a lei.
Ed è tutto un puntare e ripuntare gli sguardi. E si sa che, da un mondo che le consente di esistere, c’è da uscire, per raggiungerne un altro, il nostro, dove lei possa vedere finalmente l’alba che tanto vagheggia.
Resta da chiedersi, visto che gli umani possono entrare nel mondo del computer, se anche i programmi possano entrare nel mondo degli umani. E se, in definitiva, anche con loro sia possibile fare certe porcherie… Per la gioia infinita di tutti quelli che hanno sempre desiderato addentrarsi tra i quanti d’energia divenuta carne.

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