Sul Corriere del 21.01.2012 è stato stampato un articolo che mette in evidenza lo stato di confusione in cui si trovano sia i critici che gli apologeti del capitalismo di fronte alle problematiche che vengono poste dalla grande crisi globale. Una frase sconsolante ci affligge già all’inizio dell’articolo:
<<La crisi finanziaria esplosa nell’autunno del 2008 è stata probabilmente la porta che lo ha introdotto in una sua fase nuova, quella della distruzione, invece che della creazione, della ricchezza>>.
Basterebbe sapere qualcosa attorno alle idee di un economista importante come Schumpeter per riuscire a capire che “distruzione” e “creazione” sono inestricabilmente unite nella dinamica del capitalismo e soprattutto nelle fasi di depressione e di crisi: la Grande Depressione che seguì il 1929 fu effettivamente risolta solo con la II^ Guerra Mondiale, non con il keynesismo, che venne attuato dopo, nei primi decenni del nuovo ciclo sistemico di accumulazione in occidente, a direzione Usa, aperto da Bretton Woods. La Grande Depressione del 1929 è stata, invece, il primo atto della crisi sistemica della nuova fase di sviluppo del capitalismo – quella dei funzionari del capitale – ad egemonia statunitense. La transizione dal ciclo precedente, ad egemonia britannica – che rappresentava il capitalismo del periodo propriamente borghese – iniziò con la Grande Depressione 1873-1896, che sfociò nella finanziarizzazione della Belle Epoque, nella crisi del 1907 e poi nella I^ Guerra Mondiale. Il concetto di distruzione creatrice di Schumpeter è un fatto economico tipicamente legato all’innovazione imprenditoriale e alle fasi di crisi della dinamica delle formazioni sociale capitalistiche. In questi momenti storici si assiste ad una centralizzazione e concentrazione dei capitali legata alla dinamica del capitale stesso come rapporto sociale. Molte imprese “muoiono” e quelle che sopravvivono devono trasformarsi e innovare per resistere, mentre contemporaneamente aumentano fusioni ed acquisizioni e alcuni imprese di medio spessore si alleano tra loro ed acquisiscono “potenza” e possibilità strategiche di sviluppo. Tutte queste trasformazioni preludono, per lo più – come ricordato in molti articoli del blog e nel lavoro teorico di La Grassa – a una ulteriore distruzione, quella di un assetto geopolitico mondiale per dar luogo a un assetto differente. A questo punto l’autore dell’articolo del Corriere della Sera si inventa un’altra “fiaba”:
<<Ma, dietro le manifestazioni pubbliche, il disagio dell’Occidente contro i nuovi capitalisti è molto più vasto: perché, per la prima volta, la classe media sente che le ricchezze accumulate e le differenze sociali sono ingiuste, non meritate, non frutto di imprenditorialità, di premio del lavoro ma risultato di rendite e di partecipazione ai network del potere e del denaro. Se il capitalismo diventa un club chiuso, ha finito di essere la forza motrice del mondo che è stato per decenni>>.
Di fatto – se teniamo conto che l’epoca capitalistica nel senso di Marx e di Weber inizia nel XVI secolo – lo sviluppo di una vera “classe media” con tenore di vita soddisfacente, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, ha avuto inizio solo in epoca molto recente; soltanto nella seconda metà del Novecento accanto al declino dei ceti medi tradizionali, si assiste alla crescita su larga scala dei ceti medi produttivi (piccola e media imprenditoria) e, fatto del tutto nuovo, all’ascesa di una massa di professionisti, fornitori di servizi, dipendenti pubblici e privati con funzioni direttive e di coordinamento anche a livelli relativamente bassi, con capacità di consumo particolarmente elevate rispetto al loro ruolo sociale. Il declino del Welfare State – che ha caratterizzato particolarmente l’Europa occidentale e il Giappone (negli Usa un vero e proprio “Stato sociale” non è mai esistito) – e la “concorrenza” di una nuova middle class che si sta diffondendo nelle nuove potenze economiche (parlare di “paesi emergenti” mi pare un po’ riduttivo) sta mutando il quadro nelle aree a più antico sviluppo capitalistico e le osservazioni dell’articolista paiono essere solo dei lamenti addolorati per quanto la crisi ha inciso nell’ evoluzione di questo processo già in atto. Danilo Taino, l’autore dell’articolo, continua poi a riportare fatti e dati traendone però conclusioni poco congruenti e confusi collegamenti. Così infatti prosegue nel suo intervento:
<<…sulla scena il modello crescente è quello centralizzato cinese. In discussione è l’anima stessa del capitalismo. E la domanda che sale, a Occidente come a Oriente, è questa: c’è ancora una relazione creativa tra capitalismo e mercato oppure il primo ha appiattito se non azzerato il secondo?La globalizzazione ha portato sotto l’ombrello capitalista gran parte del mondo: la Cina, l’India, il Vietnam e quasi tutta l’Asia, oltre che molti altri Paesi un tempo attratti dalle economie pianificate o da modelli caotici, dal Sudafrica al Brasile. In questi Paesi, però, non è stata l’economia aperta a trionfare, il libero gioco degli individui che alla fine risulta nella benefica mano invisibile del mercato. Per costruire le loro economie, spesso gli ex Paesi poveri ricorrono alla creazione di enormi aziende controllate dallo Stato — o dal regime come nel caso della Cina. Potenti conglomerate che usano denaro pubblico e agganci politici per farsi spazio nelle economie domestiche e internazionali. Sono le società dell’energia come la saudita Aramco, la russa Gazprom, l’iraniana Nioc, la Qatar Petroleum, la Petrochina che ormai dominano il business del greggio e del gas.[…]Il legame tra capitalismo e privato, in altri termini, non è più un fatto scontato, anzi: nei Paesi emergenti il capitalismo è una delle facce dello Stato (spesso totalitario). Non solo: il modello cinese sta prendendo piede in molte altre parti del mondo, per esempio in Africa e nell’America Latina>>.
Il primo difetto in queste considerazioni sta nell’incapacità di comprendere il vero rapporto tra il settore (e proprietà) privato e quello pubblico; su questo La Grassa ha già scritto numerose pagine e comunque si dimostra come troppo spesso prevalga la subordinazione al formalismo giuridico più banale, dove invece una più accurata analisi della strutturazione e del funzionamento di queste grandi imprese “formalmente” pubbliche dimostrerebbe che esse sono quel che sono proprio per competere, nel migliore dei modi, in un mercato mondiale in cui la componente (geo)politica diventa sempre più importante e le strategie che danno l’impulso a tutto il sistema ormai multipolare – nonostante la forza degli Usa sia ancora preponderante – sono quelle di tipo politico-militare, in senso lato. Che poi specificità culturali, geografiche e sedimentazioni di carattere storico-cumulativo rendano alcuni paesi – sulla base di un capitalismo sempre incentrato sull’impresa e sul mercato – particolarmente propensi ad adottare come impulso per lo sviluppo una sorta di comando sull’economia da parte del potere centrale, non deve permettere che venga rimessa in circolazione una nozione che è sempre risultata, anche negli scritti dei marxisti del passato, particolarmente indeterminata, vaga e aporetica come quella di “capitalismo di Stato”. Ma su questo problema dovremo per forza ritornare, soprattutto per cominciare a capire meglio che cosa è veramente stato il comunismo storico del novecento.
Mauro Tozzato 22.01.2012
Magazine Politica
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