Racconto liberamente tratto da “Trote a révu – di acque di pesci e di pescatori”
di Alessandro Maria Mai
Ed. “Il Piviere” – 2013
Quello che vi presentiamo oggi è un libro che non può non piacere a tutti i pescatori di buon senso e di buon gusto. Non saprei dire se per la storia della letteratura sarà davvero meritevole, forse no, ma certamente è molto ben scritto ed estremamente coinvolgente, con il giusto senso dell’umorismo e la giusta serietà calibrate all’occorrenza. Io, in quanto prevalentemente pescatore di trote, lo amo moltissimo e lo metto tra i miei preferiti nella biblioteca alieutica insieme a certi Albertarelli, che l’autore giustamente cita, e ad alcuni altri titoli che Anonima Cucchiaino vi ha già presentato ed altri che vi presenteremo…
Ad ogni modo non importa poi troppo che voi peschiate trote o tonni, che siate puristi della mosca o vermaioli vecchia scuola, che peschiate in appennino oppure alle pendici delle alpi o in alto mare, Alessandro Maria Mai vi ricorderà pagina dopo pagina emozioni stupende che la pesca vi ha regalato e vi aiuterà a capire perché amate tanto la ricerca di vita sott’acqua, perché pescare rende la vostra vita migliore. Buona lettura! Rock’n’Rod
Fario d’Appennino (e un merlo)
La Trota che popola i rii nello spicchio di Appennino tra Liguria, Piemonte ed Emilia è la Fario e i punti rossi della sua livrea sono un po’ come il bollino blu della banana, ovvero garanzia di qualità. La realtà è piuttosto articolata, nel senso che potremmo andare avanti pagine a disquisire sulla grandezza e il nu mero dei bollini senza riuscire a chiarire quale livrea, tra le tante riconoscibili, sia la più appenninica di tutte. Ciò a dire che, se esista una Fario le cui forme e colori presentino spiccate caratteristiche di originalità in relazione al territorio di cui stiamo parlando, è certamente questione da lasciare ai biologi di chiara fama. A ben guardare, lei stessa è specie alloctona, portata nelle botti con i muli probabilmente dal bacino del Rodano centinaia e centinaia di anni prima, affinché abitasse i nostri rii. Liberata qua e là da sognatori o, più verosimilmente, da gente affamata, è in ogni caso ricordata dai nonni dei nostri nonni come la Trota. Nei rii nuota da tempo immemore e tanto mi basta (ma su questo punto torneremo ancora). Spostando l’attenzione dal pesce al modo per fregarlo, potrà sembrare assurdo, ma dare oggigiorno una definizione di pesca a mosca condivisa dai più non è cosa scontata.
Illustrazione del libro “Trote a revù” Ed. Piviere 2013
Mantenendo fermi alcuni principi etici quali il rispetto dell’ambiente e dei pesci, ognuno dovrebbe essere libero di vedere le cose a modo suo, senza che questo debba provocare polemiche e scomuniche come spesso accade dalle parti di casa nostra.
Per quanto mi riguarda, ciò che perseguo è il modo e il gusto del fare le cose e devo dire che rispettando sempre un codice etico ben preciso, ho goduto di varie situazioni che con l’approccio canonico della pesca a mosca hanno poco a che vedere. Ciò detto, quando chiudo gli occhi e penso alla pesca con la coda di topo, mi vedo solitario su un rio dell’Appennino, lanciare la sedge ad una Fario. Non riesco a immaginare un filo d’acqua tra i castagni, magari largo un passo, senza una di queste che ci nuoti dentro. Immesse dai pescatori o presenti per magia, non finiscono mai di stupirmi: se c’è acqua tutto l’anno e non si scalda troppo, loro ci sono. A ben vedere, non abbiamo dato loro tregua, con il verme e con la calce, con la corrente elettrica e con le asciutte, divieti e mica divieti. Ma loro hanno infinite risorse. Negli ultimi vent’anni del millennio ci si è messo pure Giove Pluvio che ha lesinato i propri favori e i livelli ne hanno risentito pesantemente. Anche i tubi da venti, che pompano acqua per le ville abusive o sfacciatamente a catasto grazie agli amministratori indegni che in Italia non mancano, gridano vendetta. Chissà se abbiamo ormai perso l’occasione per alzare la voce. Ci siamo dimenticati che nella vita principi fondamentali come la dignità mai vanno messi da parte. Purtroppo pochi li antepongono al tornaconto personale o al quieto vivere. In tutta onestà, non mi sento in pace con me stesso. Ogni giorno osservo senza reagire le offese che arrechiamo alla natura. Guardo, mi indigno, scrivo ad un politico qualche nota che so verrà ignorata, e passo oltre. Nel fare ciò, manco di determinazione e impegno, e ciò non mi rende orgoglioso: so bene che è arrivato il momento di lavorare duramente, ora più che mai, affinché il rispetto dell’ambiente sia per tutti l’obiettivo primario.
Qualcuno ha detto che la civiltà di un popolo si misura dal rispetto portato a vecchi, bambini e fiumi.
Noi dunque siamo degli incivili.
Illustrazione del libro “Trote a revù”
Dicevamo che la Fario ha la pelle dura e che i livelli non l’hanno aiutata. Esistono luoghi dove quindici anni fa si prendevano le Trote e che oggi sono asciutti da maggio a ottobre. Non piove più come una volta, governo ladro! Certo è che se ci fosse un una piccola inversione di tendenza magari tra qualche anno, le nostre mogli sarebbero sempre più astiose e i dolori alle articolazioni sempre più forti, ma, allo stesso modo, il Carreghino, il rio di Tonno, il Crevarina, il Carbonasca e via, proseguendo verso ovest, non si ridurrebbero ad una pisciata per buona parte dell’anno. E se c’è l’acqua, le Trote si aiutano da sole, garantito al limone. Pensiamo positivo, nonostante tutto. Con i livelli attuali, molti smettono di andar sui rii in estate, ma la possibilità di divertirsi è concreta anche quando le condizioni sembrano disperate. Certo, non si pesca dall’alba al tramonto, piuttosto all’alba o al tramonto. Pochi lanci, poche buche, magari si cerca un pesce solo, ma di quelli importanti. Ovvio che se abitassi a Grunburg o a Traverse City mi dovrebbero legare alla sedia per stare alla scrivania tutto il giorno: in Appennino ci si deve adeguare. Peraltro non dimentichiamoci che è sempre preferibile un cattivo giorno di pesca ad un buon giorno di lavoro (un tale diceva che sostenerlo significa non aver mai avuto la barca che affonda in mezzo al fiume…).
Sotto la canicola di luglio e agosto, rimane veramente poca acqua, con la temperatura che staziona intorno ai 20°C.
Per le Trote si tratta di una situazione limite.
Ovviamente, se un temporale scarica due gocce d’acqua, è tassativo mollare lavoro, figli, mogli e morose e correre sul rio con una manciata di ninfe che vadano giù a raschiare il fondo. Qualunque scusa è tollerata da Pietro, che conosce la nostra natura di pescatori a mosca, e ci garantisce il perdono: nasciamo sinceri, ma siamo costretti dalle circostanze a mentire.
Il problema è che andremo eventualmente all’inferno, non per aver imbrogliato pur di essere sul fiume ad ogni costo, ma perché spacciamo i pesci presi e persi, in verità creature inoffensive, per mostri inverecondi in grado di raggiungere forme e pesi cinghialeschi.
E so ben quel che dico!
Torniamo alla nostra canicola e al torrente ridotto ai minimi termini. In genere sono pescabili solamente le piccole buchette dove l’acqua non corre più o quasi. Dicevamo dell’alba e del tramonto, quando si va a caccia del pesce importante. Bisogna aver lavorato prima e sapere dove trovare una Trota di taglia. I posti dove può stare una grossa sono quelli con una tana sicura e ovviamente un minimo d acqua. Occorre avere la pazienza di attendere. Arrivare e fare un lancio non da risultato: è troppo alto il rischio che un Vairone bolli sulla nostra mosca mettendo in allame la vecchia e spedendola in tana fino al mattino successivo. Ci si avvicina bassi, in silenzio, e si dovrebbe sapere in anticipo dove piazzarsi per fare quell’unico lancio che serve. E farlo bene. Mattina presto e sera tardi sono momenti magici, e per la pesca, e per le sensazioni che si possono provare lassù, in mezzo ai castagni.
Nel mio immaginario perverso di pescatore a mosca, alba e tramonto si uniscono a formare un cerchio magico, senza soluzione di continuità.
Il coup du soir è, come ovvio, un modo eccellente per concludere la giornata. Essere sul torrente all’alba ci dona lo spirito giusto per salvare la pellaccia lungo i tornanti della giornata e poter arrivare al successivo coup du soir non meno che pronti… Tra i due momenti, è l’alba a suscitare in me attrazione più forte e, rubando qualche ora al sonno, solitamente le accordo preferenza. Poi, finita la pesca e con il sole ormai alto, anche se sono consapevole che il cerchio magico è destinato a spezzarsi a causa di una qualche attività molesta nelle ore successive, faccio il bagno in una pozza di acqua cristallina, mangio un panino e, grazie a tutto questo, vado al lavoro con il sorriso stampato sulla faccia (gli anglosassoni sostengono che se la pesca interferisce con il lavoro è necessario mandare al diavolo… il lavoro, ma forse questo non è un gran consiglio).
In primavera e in autunno, grazie ai livelli un poco più ricchi e scegliendo quei posti dove c’è acqua anche in estate, si prende il rio e si va su fino a stufarsi.
Le Trote possono essere ovunque, basta cercarle con metodo. Lasciata la macchina e fatti pochi passi, ci si inoltra in un mondo senza tempo. È probabile che i nostri avi calpestassero le stesse pietre, mangiassero le stesse more, si abbeverassero alle stesse fonti.
Lo stacco dal mondo artificiale degli outlete dei centri commerciali è netto; entrando nel bosco ci si trova quasi disorientati, ma è un attimo fugace. Guardando la valle dall’alto non possiamo che bearci della differenza tra noi e loro, sfacciatamente consapevoli che stiamo assaporando sensazioni preziose destinate a pochi eletti.
Per una volta non sono i soldi bensì il nostro cuore a fare la differenza.
Lassù sentiamo che il ritmo delle cose e della vita è cambiato. Sentiamo, appunto… Sentire è proprio ciò che non siamo più in grado di fare perché il vivere quotidiano ci ha portato a credere in ciò che è scritto o detto da altri, ma non in quello che noi percepiamo. Quante volte, durante la giornata, intuiamo che stiamo per fare la cosa giusta, ma ignoriamo ciò che il cuore ci dice per seguire convenzioni e percorsi codificati? Il bosco e i rii d’Appennino e le Fario con i puntini rossi e la pancia gialla, la loro presenza fugace, la loro sfida inconsapevole alle nostre mosche così diabolicamente ingannevoli sono il viatico alla redenzione. Vicino all’acqua ci si sente parte di un tutto, i sensi all’erta pronti a cogliere un piccolo movimento in superficie, le gambe toniche ed elastiche, attente a non far rumore, il braccio pronto a sciabolare la coda verso quella Trota che conosce solo fame e paura. Non importa se il lancio è maldestro e la Fario sparisce nella sua tana. Abbiamo camminato ritrovando il vecchio sentiero, ci siamo avvicinati in silenzio valutando il percorso più adatto, abbiamo letto l’acqua e visto il pesce, scelto la mosca e immaginato l’attacco. Abbiamo perso, è vero, ma avremo un’altra occasione alla prossima buca e, se avremo fortuna, gioiremo nel vederla, una volta liberata, sparire dove l’acqua è più scura.
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