Mio padre mi sta rincorrendo.
Dio mio, me lo sento nella spina dorsale, il tonfo sul tappeto erboso, l’avvicinarsi delle sue mani, mani gigantesche, l’affannoso incalzare del suo respiro via via che si avvicina: uno sforzo in espansione. Me lo sento nella spina dorsale, in bocca e nello stomaco – il papà è così veloce: chi l’ha mai vista una velocità simile? Solo nelle favole…
Non riesco a sfuggirgli, a eludere lui, le sue braccia, la sua rapidità, la sua volontà, il suo interesse per me.
Vengo sollevato in aria – e mentre ancora ansimo e con gli occhi imbambolati mi guardo intorno confusamente, mollemente, distrattamente, una mappa del terreno scuro dove ho corso appare: mentre ciondolo floscio e poi salgo su quella sbarra ingrossata che è il braccio di mio padre, vedo che c’è l’erba, c’è il sentiero, c’è un’aiuola di fiori.
Mi raddrizzo. Ci sono le finestre illuminate della nostra casa, a una certa distanza. La faccia di mio padre, che rimbomba di rumori, è vicina e si profila la sua faccia nascosta: sei tu vecchio fabbrica-quattrini? Il mio sederino è ben sistemato sul trapezio delle sue braccia. Mio padre è grosso come un’automobile.
Nel torpore dolce-amaro di quel mio venir portato a casa nel buio, come un turista, tra le braccia di mio padre, mi sento unito a lui dal mio sudore bagnaticcio riscaldato dalla corsa: siamo uniti, ci sono macchie ovali di calore che ci legano.
Harold Brodkey, Suo figlio, tra le braccia, in alto nella luce – in Storie in modo quasi classico (Fandango, trad. Delfina Vezzoli)