Ci si può innamorare di un luogo e non poter vivere senza?
Ci si può appassionare ad un luogo in modo viscerale, tanto che quel luogo per noi significa la vita e significa la morte?
I poeti ci insegnano di sì. Ci insegnano che il cuore si può schiantare se siamo costretti ad abbandonare un luogo, che l’anima può non trovare pace se non tornando al luogo delle radici.
Uno di questi è Federico Garcia Lorca, in ‘Canzone del Cavaliere’:
CANZONE DEL CAVALIERE
Cordova.
Lontana e sola.
Puledra nera, luna grande,
e olive nella mia bisaccia.
Benché sappia le vie
non giungerò mai a Cordova.
Per la pianura, per il vento,
puledra nera, luna rossa.
La morte mi fissa
dalle torri di Cordova.
Ahi, come lungo è il cammino!
Ahi, mia brava puledra!
Ahi, che la morte mi attende
prima di giungere a Cordova!
Cordova.
Lontana e sola.
Un altro autore che ci parla della propria città è Umberto Saba, in ‘Trieste’:
Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.”
Apparentemente dalla poesia traspare serenità, ma vi è un tormento, un miscuglio di odio e amore, quasi come vi fosse descritto a brevi cenni un rapporto contorto e a tratti lieto con una donna capricciosa.
Ci parla dei suoi luoghi anche Giuseppe Ungaretti in più di una sua poesia: da ‘San Martino del Carso’ a ‘I Fiumi’…
Ognuno ha un posto in cui perdersi e ritrovarsi, un posto di conflitti e di gioie, un posto in cui può essere se stesso.
Forse io, il mio non l’ho ancora trovato.
Come Dante, esiliato dai miei luoghi e da me stesso, so quanto sa di sale lo pane altrui e lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.
Eppure questa è la condizione più diffusa tra gli uomini, almeno così penso…
Un po’ come Moammed Sceàb della poesia ‘In memoria’ di Ungaretti: si fece chiamare Marcel ma non fu francese, e non sapeva recitare più la cantilena del Corano (cito a memoria, chiedo venia per eventuali errori…).
L’identità umana passa attraverso un luogo in cui riconoscersi, e ogni luogo è fatto da cultura storia e strati di secoli che si sedimentano a formare le nostre cellule, la nostra anima. Negare i propri luoghi è alienarsi, non poterli respirare è morire annegati senza aria.