Anche questa seconda stagione di True Detective si è conclusa, anche questa nel migliore dei modi, quantomeno in senso puramente estetico, artistico. Accompagnata da una valanga di critiche insistite e troppo frettolose, tanto che già dopo un paio di puntate i sempre vispi sacerdoti del bello e del brutto si sono prodigati nello stroncare l’opera nata dalla penna dello scrittore italoamericano Nic Pizzolatto, la serie ‘noir’ antologica, rivelazione dell’anno 2014, seppur partita leggermente in sordina, con una prima puntata, diciamo, interlocutoria, è tornata rapidamente in orbita già con la seconda, soprattutto sul finale di questa, servendosi di una di quelle chiusure destabilizzanti che farebbero traballare le certezze anche del più avido e smaliziato divoratore di pellicole di genere e del genere. Non c’è che dire, questa seconda stagione è stata la più difficile, in tutti i sensi, e si sa, riconfermarsi è più difficile, le aspettative dopo un clamoroso successo di scrittura, di regia, di messa in scena, di produzione e di interpretazione degli attori, quale è stato il True Detective della prima stagione, è sembrato fin da subito un ostacolo insormontabile e scomodo sia per i fans che, probabilmente, per gli stessi autori, d’altra parte è risaputo, quando si alza l’asticella, in tal caso l’asticella qualitativa dei prodotti televisivi, da noi le famigerate fiction, ma questa è un’altra brutta storia, si diviene vittime e carnefici di un gioco armato a doppio taglio, un boomerang che se ti viene contro può farti molto male, eppure, sfrontatamente, questo nuovo appuntamento con la crime story più famosa del piccolo schermo è stato un altro trionfo di qualità, estrema verrebbe da dire, da non farci rimpiangere il cinema, il grande schermo, mezzo che, onestamente, entrambe le stagioni avrebbero meritato.
Già, perché disquisendo di True Detective diviene inevitabile riflettere e pensare proprio al cinema, alla settima arte, del quale la serie ne è un diretto figlio erede, si, erede, non è azzardato esprimersi in tale modo, è solo una constatazione dei fatti, True Detective è cinema, con buona pace dei puristi estremi e dei talebani della celluloide. Attenzione, non affermiamo che ora tutto ciò che passi per il nostro televisore sia da anteporre al cinema, ci mancherebbe e non è affatto così, ma è evidente che ormai e, ultimamente, sempre più spesso, basti pensare all’avvento del lungo e super osannato Breaking Bad, il divario, quella sottile linea rossa che fino a qualche anno fa divideva ancora la tv dal cinema, vada assottigliandosi inesorabilmente; è chiaro quanto alcune serie tv d’oltreoceano abbiano fatto propria la lezione narrativa e di stile di Breaking Bad, con l’incredibile interpretazione di Bryan Cranston, fino ad allora attore caratterista misconosciuto ai più, iniziando così a sposare l’idea che, almeno in alcuni casi e laddove non sia assente una certa dose di talento, sia possibile fare dell’ottima televisione. Gli esempi non mancano di certo e, a parte i già citati, come non ricordare l’interessante Boardwalk Empire, prodotto da Martin Scorsese, sugli anni del proibizionismo americano, della politica collusa con le famiglie malavitose e dove è finalmente protagonista l’ottimo Steve Buscemi, oppure il recente Fargo, altra crime story antologica, vagamente ispirata all’omonimo film dei fratelli Joel&Ethan Coen, dieci episodi che filano via che è un piacere fra le fitte nevi di un Minnesota onirico e grottesco, grazie anche alla titanica interpretazione di Billy Bob Thornton e ad una regia sapiente e dal taglio prettamente cinematografico, o come l’ancora inedita in Italia, Aquarius con David Duchovny nelle vesti di un investigatore sulle tracce di Charles Manson nella San Francisco del 1967, oppure le meno eclatanti ma pur sempre interessanti Mad Men, The Americans o la britannica e sperimentale Black Mirror, nella quale vediamo cast e trame diverse per ogni episodio; insomma, ce ne sono. Se un tempo si restava saldamente ancorati a sporadici casi di qualità televisiva, come il fenomeno Twin Peaks, del quale è in cantiere una terza stagione, o anche I Soprano, discreto esempio, ma troppo tirato per le lunghe, ora la musica sembra essere decisamente cambiata e con lei anche l’impegno delle emittenti televisive, quali HBO o FX, nel voler aumentare la credibilità delle loro storie, affidandole a registi e scrittori di indubbio talento e stile, dal solido bagaglio classico, i due True Detective brulicano di citazioni, rimandi cinefili e letterari, quali Il Re Giallo di Robert W. Chambers, ma con un occhio attento verso uno stile postmoderno.
Questo risulta, per certi versi un processo inevitabile, in un frangente in cui il cinema arranca, in un momento storico in cui remake, sequel, prequel, reboot, saghe e confusi cinecomics hanno il sopravvento sul cinema vero e proprio, un cinema dove le idee latitano e se non latitano non vengono ascoltate, proposte, imposte o molto più semplicemente non incontrano i favori del pubblico. Gli eroi della Marvel, piuttosto che qualche villain dell’horror rigenerato da inutili reboot, invadono i multisala, poiché l’immenso baraccone del cinema è anche quello, ma il tutto si sta limitando meramente solo a quello, all’incasso facile e veloce, ingoiato e digerito, frettolosamente per essere pronto per il prossimo e poi ancora per un altro e così via. Al momento il cinema, il cinema che parte da un’idea, fatto con gli attori, la macchina da presa, una buona sceneggiatura e una buona fotografia ha perso centralità nell’ immaginario collettivo, forse anche un po’ di valore, tanto che nella stagione 2014/2015 i maggiori incassi sorridono al pessimo, anticinemtografico Cinquanta Sfumature di Grigio (2015), o a Fast and Furious 7 (2015) o ad Avengers (2015) e fortuna che in mezzo a loro risalta il discusso ma interessante American Sniper (2014), mentre Inherent Vice, (2014) di Paul Thomas Anderson, uno dei film più mitici e cinematografici degli ultimi anni, è passato praticamente inosservato, quasi fosse un flop scontato, annunciato, ulteriore conferma di un certo smarrimento qualitativo da parte di tutti; del resto, ma a chi volete che interessi, oggi, un film sul crepuscolo malinconico di un’ era così lontana da noi, giurassica, preistorica, verso cui gli stessi reduci di quel periodo lisergico, pieno di speranze e sogni irrealizzati, ne hanno ammesso le sconfitte e le utopie? Beh, forse a noi, perché siamo dei curiosoni un po’ gonzi, ma il grande pubblico, la maggioranza fracassona, preferisce recarsi nei cinema dove sa che andrà a vedere le pirotecniche e poco impegnative guasconate del costosissimo franchising di turno. Non è un rimprovero, ne tantomeno una morale, è un dato di fatto, siamo in balia di un consumo filmico compulsivo, oggi, nel 2015, sembra non esservi più spazio per le attese, per quei tempi dilatati di cui spesso si appropriano proprio alcune serie tv di grande valore. Oggi il cinema pare che abbia una gran fretta, come gli spettatori.
Altro genere particolarmente in voga, il biopic, ne escono a fiotti, sono ancora freschi i successi, patinati, di The Imitation Game, (2014) di Morten Tyldum con protagonista Benedict Cumberbatch nel ruolo del matematico Alan Turing, o di The Theory Of Everything, (2014), di James Marsh con protagonista Eddie Redmayne, nelle vesti del celebre fisico Stpehen Hawking. Due film dall’occhio umido, ben confezionati ma che impongono, santificano, fino al melenso più raschiato e raschiante, le figure di due grandi uomini e scienziati del XX secolo; due film compromessi ,di un genere, il biopic, a sua volta compromesso e compromettente e che ci allontanano inesorabilmente ancor di più dal cinema, si, quel cinema che, ad oggi, vediamo altrove, magari proprio in un episodio di True Detective diretto da Cary Fukunaga o in uno di Fargo. Certo, a questo punto una domanda sorgerebbe spontanea: ma quale sarebbe ‘sto cinema? Al tempo, una risposta sarà possibile, ma non sarà la verità assoluta.
Per fortuna che al cinema in sala ci pensano ancora quel pugno di registi che non deludono (quasi) mai e ancora ci credono, ma che sempre più spesso incappano in flop evidenti quanto inspiegabili, salvo alcune titaniche eccezioni, vale a dire i soliti Martin Scorsese, Quentin Tarantino, Joel&Ethan Coen, Roman Polanski, Paul Thomas Anderson, Tim Burton che fra alti e bassi con il suo ultimo Big Eyes è tornato ad un cinema più personale, David Cronenberg, Woody Allen, anche lui con alterne fortune, Clint Eastwood, Nicolas Winding Refn Jim Jarmush, Terry Gilliam, Rob Zombie, Michael Mann, nonostante il suo ultimo film Blackhat sia stato un tonfo tronfio e inaspettato, Alex de la Iglesia, Gus Van Sant, Sam Raimi, Jaume Balaguerò, prima che restasse impantanato nel franchise di REC o i più di nicchia Wim Wenders e anche, checché se ne dica, Lars Von Trier. Aspettando i graditi ritorni di quei mattacchioni di David Lynch, William Friedkin, George A. Romero, e quelli sempre meno probabili di John Landis e John Carpenter. Nomi altisonanti, ma non eterni, visto che molti di questi hanno superato, già da qualche primavera, la sessantina e anche la settantina. Ok, l’età a volte è solo un dettaglio anagrafico, ma altre volte no, come nel caso di Terrence Malick.
Del resto gli stessi Scorsese, Tarantino, Friedkin e, ovviamente, David Lynch si sono detti aperti alle possibilità che la tv offre e vedono, per loro, un ipotetico futuro televisivo, anche solo una parentesi, che ne sposi qualità ed impegno; il primo, produttore della già citata Boardwalk Empire, è in procinto di esordire, nel 2016, con Vinyl, serie sul mondo della musica rock/punk nella New York degli anni settanta, dove lo vedremo nelle vesti di produttore associato insieme al frontman dei Rolling Stones, Mick Jagger, e per la quale dirigerà l’episodio pilota,Tarantino è entusiasta all’idea di poter realizzare, in un futuro prossimo, una serie tv con tutti i crismi e non scordiamoci che egli stesso ha già avuto modo di dirigere episodi di ER- Medici in prima linea e C.S.I. nelle vesti di special guest director, il vecchio Friedkin, stando a recenti rumors, dirigerà per la WGN la serie del suo To Live And Die in L.A. e in tempi non sospetti fu considerato proprio come possibile regista di True Detective 2, mentre il buon Lynch, pioniere con Twin Peaks, è ora impegnato con una terza, segretissima, stagione.
Tutto ciò per dire che la tv ormai sta lambendo quel confine che la separa(va) da un cinema oggi troppo estraneo a se stesso, un discorso che esclude a priori la tv e le fiction nostrane, le quali rasentano ancora un livello amatoriale, zoppo, in alcuni casi addirittura penoso, salvo le eccezioni firmate da Stefano Sollima con Romanzo Criminale e il discreto Gomorra . True Detective è solo l’esempio più lampante della forza di questo formato, tanto che il finale della seconda stagione, più precisamente le ultime due puntate, hanno ancor più espresso un’estetica cinematografica coltissima e voluttuosa, superando, se possibile, anche il finale della prima stagione, con la coppia d’attori in stato di grazia Matthew McConaughey e Woody Harrelson. Qui Colin Farrell, che con il suo tormentato e sconfitto Ray Velcoro ha dato vita ad un antieroe purissimo a metà fra lo sbirro Richard Chance di William Petersen in To Live And Die in L.A, (1985), e il tenente tossicomane interpretato da Harvey Keitel in Bad Lieutenant, (1992), di Abel Ferrara, insieme a Vince Vaughn, Rachel McAdams e Taylor Kitsch nel ruolo di Paul Woodrugh, altro personaggio mai scontato e perennemente sull’orlo del precipizio, hanno retto all’onda d’urto del fenomeno che li aveva preceduti con così tanta dirompenza da penetrare l’immaginario collettivo moderno. Anche la regia, qui affidata a nomi sempre diversi per ogni episodio, non ha così sfigurato, certo, sono mancati quei vezzi virtuosistici e necessari, di appurata bellezza, a cui ci aveva abituato Cary Fukunaga; nella seconda stagione, non vedremo infatti piani sequenza di sei minuti, ma non è un cruccio, quando il tutto viene compensato da una storia che regge e non si dilunga più del dovuto attraverso otto episodi secchi che, favoriti dalla sensibile penna di Nic Pizzolatto, sgretolano il nostro mondo e ci sbattono in faccia il marcio e tutto il pessimismo della miglior tradizione noir dei tempi d’oro, che strizza l’occhio a Melville, ai racconti di Raymond Chandler piuttosto che al soleggiato Chinatown (1974), di Polanski; quel noir dove ambiguità, ferocia e lo spettro continuo di un oscuro destino impossibile non lasciavano spazio a compromessi.
Dunque che dire ancora, cinema e serie tv si stanno incontrando sempre più spesso e mai come ora si fa fatica a stabilire quali dei due potrà avere un vigoroso futuro, magari convivranno allegramente come speriamo accada, o magari uno dei due primeggerà, ma è palese che qualcosa stia avvenendo, ora, che il linguaggio stia cambiando e che la centralità del cinema vacilli in favore proprio di alcune serie che nulla hanno da invidiare a tanto altro cinema degli ultimi anni, quello si scontato e piatto. Ma dicevamo, che cos’è il cinema? Noi non possiamo di certo avere la presunzione di spiegarlo senza usare le solite frasi fatte e termini già sentiti, scontati, ormai obsoleti, il cinema può essere tante cose, tutte personali, private, difficili da esporre, ma più si va avanti, alla ricerca disperata del suo significato recondito, più ci perdiamo, non cavandone un fico secco, perché non sono nozioni o concetti che apprendiamo sui libri di testo, quindi faremo un salto indietro ad una citazione di un grande cineasta italiano, Sergio Leone, che fa pressappoco così: Il cinema dev’essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito. Poi, dietro questo spettacolo, si può suggerire tutto quello che si vuole: attualità, politica, critica sociale, ideologia. Ma bisogna farlo senza imporre, senza prevaricare, senza obbligare la gente a subire. C’è lo spettacolo e poi, in seconda battuta, se uno vuole può trovare la riflessione. Come anche un suo illustre allievo, il nostro Bernardo Bertolucci, ha candidamente ammesso, dall’alto dei suoi 75 anni, che oggi quel cinema, quel mito, lo ritrova proprio in alcune serie tv di pregevole fattura, le quali sono più belle di quasi tutti i film hollywoodiani e hanno fatto propri quei tempi che il cinema ha ingoiato e fatto sparire. Ecco, e siamo sicuri, senza neanche rifletterci troppo, che entrambi di cinema ne sapessero e ne sappiano molto più di noi.
Manuele Bisturi Berardi