Non è una novità ormai vedere delle serie tv di ottima fattura. Negli ultimi anni gli standard seriali sono molto aumentati e se da una parte si continuano a produrre serie “vecchio stampo”, dall’altra i prodotti di ottima qualità di certo non mancano. Questo True Detective nell’ambiente di chi divora serie era una delle cose più attese di questo inizio 2014: una miniserie in otto episodi (io sinceramente ancora non ho capito se è una miniserie che nasce e muore con queste otto puntate oppure avrà una seconda stagione) nella quale due poliziotti americani si ritrovano a dover risolvere un caso particolarmente difficile e inquietante. Non voglio essere blasfemo, ma le premesse e l’impegno messo su questo prodotto, potrebbero farlo diventare il Twin Peaks dei giorni nostri. Sì, è vero, forse sto puntando un po’ troppo in alto, ma la HBO ci ha sempre regalato cose abbastanza particolare e belle, complice il fatto di essere una televisione via cavo che può permettersi benissimo di non sottostare agli standard della comune decenza e mostrare scene di estrema violenza o sesso senza troppi problemi.
La storia si svolge su due linee temporali diverse. Una parte è ambientata nella Louisiana del 1995 nella quale i due protagonisti, Martin Hart (Woody Harrelson) e Rust Cohle (Matthew McConaughey) indagano su un particolare omicidio, che al primo sguardo include elementi satanici e rituali. A cornice troviamo gli stessi sottoposti a un interrogatorio dalla polizia nel 2012, quando il caso viene riaperto. Si deduce che tra i due non corra più buon sangue e che, apparentemente, il caso del ’95 sia stato risolto. Il che rende il nuovo delitto, in tutto e per tutto simile a quello originale.
La serie sembra essere interpretata come un unico lungo film di otto ore, quindi alla fine del primo episodio non troviamo colpi di scena o momenti clou. La puntata viene chiusa da una dissolvenza, come se si stesse per cambiare scena, invece appaiono i titoli di coda. Anche durante l’episodio i ritmi narrativi sono quelli del film, piuttosto che della serie tv, anche se a volte la lentezza di alcune scene si fa davvero sentire (soprattutto se guardate la puntata in tarda sera, come ho fatto io). La forza della serie, però, è tutta basata sui due protagonisti che la animano e che sin dalle prime battute risultano subito ben caratterizzati e definiti. Marty è il tipico uomo del sud degli USA che lavora in polizia: è preciso, attento, ha una famiglia con due bambine, ha frequentato l’università nella quale giocava a baseball, va a pesca, (forse) ha un amante, e gli piace bere birra con i colleghi. Rust, dal’altro canto, è molto misterioso e particolare. Di lui sappiamo che è cresciuto in Alaska, poi ha lavorato per qualche anno nel Texas, per poi finire in Louisiana. Ama poco la socialità e preferisce stare da solo, è molto intelligente ma spesso un po’ troppo rude. Ha un passato poco chiaro nella quale sono coinvolte una ex moglie e una figlia morta, forse uccisa.L’alchimia della serie è nel confronto tra i due personaggi, ma anche nel modo in cui viene narrata la storia. Il regista opta per un’atmosfera dimessa, un incalzare lento e dialoghi criptici. E punta la macchina da presa costantemente sui due eroi riluttani, l’uomo di famiglia con (forse) un segreto scomodo e il detective geniale ma borderline, in preda a depressione e in lotta col demone dell’alcol.
Sinceramente credo che valga la pena guardarsi questa serie anche solo per la sigla iniziale, che è veramente bella, ma anche perché promette di essere uno dei migliori prodotti di quest’anno appena iniziato.