Magazine Cinema
di Cary Joji Fukunaga (Usa, 2014)
con Matthew McCounaughey, Woody Harrelson, Michelle Monaghan
durata: 8 episodi di 60 minuti
Prima o poi doveva succedere che anche Solaris si occupasse di serie tv, per certi versi stimolato dall'interessante dibattito sorto in occasione del post dedicato all'argomento (vedi qui). Certo, con mia grande sorpresa, non potevo immaginare che la prima serie visionata dal sottoscritto si sarebbe rivelata... beh, sì: la migliore 'cosa' vista finora in quest'anno solare. Senza alcun dubbio. Tengo a precisare che la mia è un'opinione 'dilettantesca', cioè quella di un appassionato cinefilo che si è buttato nel mondo dei serial con occhi e ritmi da cinefilo, e che in quanto tale prova a buttar giù una recensione. Per questo vi chiedo comprensione e 'pirdunanza' (per dirla alla Camilleri) per le eventuali ovvietà che scrivo: ma forse sarà interessante anche per i 'serialisti' incalliti incontrare uno sguardo 'vergine' in materia...
Ricordo che tempo fa, proprio su un forum di cinema, mi trovai a dover prendere posizione in un infuocato scambio di battute su Michael Mann (ovvero, a mio modestissimo parere, il miglior cineasta ancora in vita). Il tema era: cosa fa di Michael Mann un grande regista? La mia risposta fu lapidaria: la capacità di rendere indimenticabili anche le storie più banali, giocando sulle atmosfere, i dialoghi, la costruzione dei personaggi, i virtuosismi della macchina da presa. Ecco, vedendo ogni puntata di True Detective a me è sempre venuto in mente Michael Mann, e non solo per l'ormai 'leggendaria' sparatoria in piano sequenza del quarto episodio, ma soprattutto per lo straordinario contrasto tra la banalità dell'impianto narrativo e l'incredibile complessità introspettiva dell'intera serie.
Il canovaccio di True Detective, infatti, non potrebbe essere più banale: si parla del solito serial killer che uccide le solite giovani prostitute, col solito potente di turno pieno di scheletri nell'armadio che cerca di insabbiare le indagini. Perfino l'assassino, alla fine, si rivelerà essere proprio il più sospettabile di tutti... segno evidente, lapalissiano, che al regista Cary Fukunaga e allo sceneggiatore Nic Pizzolatto ben poco importa della trama. Del resto lo dice il titolo stesso: True Detective è, prima di tutto, la storia di due uomini e non la cronaca di un'indagine. Negli otto episodi impariamo a conoscere, odiare, rispettare e trepidare per le vite di Rust Cohle e Marty Hart, ed è questo il vero punto di forza della serie: attraverso i continui salti temporali (la vicenda si svolge nell'arco di quasi vent'anni, dal 1995 al 2012) vediamo l'evoluzione del complicato rapporto tra i due protagonisti, che condiziona pesantemente non solo il loro lavoro ma anche la loro vita privata. E True Detective è soprattutto una storia privata, quella di due persone devastate psicologicamente e moralmente da una realtà mostruosa, che riaffiora in continuazione e che ovviamente non è possibile scrollarsi di dosso.
La vera indagine di True Detective non è su chi abbia ucciso la giovane Dora Lange, ma sulle esistenze dei due poliziotti: due caratteri diversissimi, apparentemente incompatibili, in realtà accomunati dalla loro disperata solitudine. Quella di Cohle è una solitudine auto-imposta, nichilista, punitiva, retaggio di un passato doloroso. Quella di Hart invece è dettata dall'ipocrisia e dal perbenismo di un uomo rozzo e violento, socialmente integrato eppure drammaticamente impresentabile. Sono due uomini che lottano principalmente contro loro stessi e le loro pulsioni malsane, tentando di scacciare i propri demoni e cercando un posto in un mondo che non si sono scelti e che non è affatto perfetto: non è un caso, infatti, che la vicenda si svolga in Louisiana a cavallo degli anni prima e dopo il terribile uragano Katrina, e quelle zone paludose, selvagge, putride, semi-abbandonate, devastate dalla furia degli elementi, sono un chiaro simbolismo del marciume che impregna la società attuale.
True Detective è talmente complesso e sfaccettato da sembrare un manuale di psicologia, tremendamente affascinante e bisognoso di essere assimilato e metabolizzato a piccole dosi. Non sono d'accordo infatti, dal basso della mia inesperienza, con chi dice che questa più che una serie sia, per la sua brevità, un lungo film della durata di otto ore... a me pare che ogni episodio sia talmente denso di significati, allusioni e simbolismi tali da dover essere per forza lasciato decantare dopo la visione. Bisogna rifletterci sopra, e trovo sia impossibile 'spararsi' gli otto episodi di seguito, uno dopo l'altro, come i serial-addicted amano fare... così facendo si rischia di banalizzare tutto, di passare sopra a dettagli fondamentali, di annacquare la portata e la potenza evocativa di un prodotto di qualità eccelsa anche proprio per la maniacale cura dei particolari.
E' impossibile infatti non accorgersi dell'incredibile accuratezza della confezione: dalla mirabilante fotografia densa e 'appiccicosa', ai movimenti di macchina che inquadrano (quasi) sempre dall'alto la monotonia e l'inquietudine di un paesaggio selvaggio e compromesso, fino alla partitura musicale di T. Bone Burnett che gioca un ruolo fondamentale nel tratteggiare gli stati d'animo incostanti dei due protagonisti. Aggiungete poi la splendida sigla iniziale, con i titoli di testa che scorrono sulle note di Far from any road di Handsome Family e che in pochi minuti già 'preparano' lo spettatore a quello che vedrà di lì a poco: una intro avvolgente, inquietante, tipicamente 'sudista', che quasi ti accompagna in questo pezzo d'America martoriato e dimenticato.
E infine, ovviamente non in ordine d'importanza, parliamo degli attori. Chi ancora ha dei dubbi sulle qualità recitative di Mathhew McCounaughey, anche dopo l'oscar per Dallas Buyers Club, si metta l'anima in pace e si guardi le otto puntate di True Detective: la sua interpretazione è semplicemente strepitosa, non lascia spazio ai detrattori. Anzi, possiamo tranquillamente azzardare un pronostico: il personaggio di Rust Cohle probabilmente gli resterà incollato addosso per tutta la vita. Poche altre volte abbiamo visto una caratterizzazione così efficace di un uomo complesso, tormentato e diabolicamente affascinante, votato inesorabilmente all'autodistruzione: Cohle è un perfetto anti-eroe moderno, icona suo malgrado di un presente inquinato fino al midollo e pronto per essere adorato da legioni di fan. Apparentemente più facile, invece, è la caratterizzazione del suo partner lavorativo, Marty Hart, impersonato da Woody Harrelson. Hart a prima vista è l'elemento più 'solido' della coppia: ha una bella moglie (Michelle Monaghan, anche lei bravissima), due figlie, ama la pesca e conduce una vita all'apparenza irreprensibile. Ma più lo impariamo a conoscere più ci accorgiamo della sua fragilità: è una persona ambigua, debole, inaffidabile. Sul lavoro subisce inesorabilmente il carisma e le intuizioni di Cohle, finendo per odiarlo senza mezzi termini. Ma la figura di Hart è importante almeno quanto quella del compagno: rappresenta la coscienza sporca dell'America, l'ipocrisia di una società perbenista e chiusa, disposta a chiudere anche entrambi gli occhi pur di conservare il proprio stato sociale.
Hart e Cohle sono due facce della stessa medaglia: non si sopportano ma sanno di essere uniti dalle proprie debolezze, insieme nella loro solitudine. Per loro la liberazione non sarà tanto mettere in galera il Re Giallo quanto superare le proprie inibizioni. A qualsiasi prezzo. Il premio, alla fine, sarà guardare con occhi diversi il cielo stellato.
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