Che il giornalismo sia peggiorato, in tempi moderni, e che sia diventato una brutta copia di quello che una volta riusciva addirittura a ispirare le persone, motivandole a intraprendere una carriera da professionista, è una faccenda ormai seria e nota praticamente a tutti. Sono pochi infatti, oggi, coloro che vedono il giornalismo come un qualcosa di diverso dal gossip e dalle frivole notizie, come sono ancora di meno coloro che, entrati nel sistema in fase di cambiamento, continuano a lottare affinché ciò che li aveva motivati a intraprendere tale professione non muoia e continui ad esistere e a respirare.
La giornalista e produttrice Mary Mapes ci ha rimesso il mestiere pur di non piegarsi a questa infezione: quando, nel 2004, venne licenziata dalla CBS (canale per cui lavorava), a seguito dell'indagine sull’eventuale favoritismo che vide George W. Bush non arruolarsi per la Guerra Del Vietnam, ma entrare a far parte della Guardia Nazionale Americana. Una notizia che la sua rete, inizialmente, decise di approvare e sostenere, ma che poi, quando le acque cominciarono a farsi torbide e pericolose, non ci pensò due volte a frenare e a ritrattare con tanto di scuse, seguendo l’esempio dei testimoni e dei collaboratori interrogati e ingaggiati. D’altronde, all’epoca, Bush era il Presidente degli Stati Uniti d’America e si preparava per continuare ad esserlo anche una seconda volta, per cui le indagini eseguite della Mapes e dal suo team, impiegarono meno del previsto per essere rovesciate da chi di dovere ed etichettate come politicamente di parte e ai limiti dell’infamia.
Ufficialmente però la ragione della Mapes non fu mai confermata, anzi, il verdetto del processo che la vide protagonista insieme ai suoi collaboratori, fu tutt’altro che positivo, eppure nella pellicola di James Vanderbilt, ispirata proprio al romanzo scritto da lei, è evidente una presa di posizione più che definita e rabbiosa. Il sospetto che all’epoca fu tutto pilotato da un sistema corrotto, il quale avrebbe dovuto favorire Bush e la sua campagna, affossando chiunque si fosse messo contro di lui, “Truth”, pur non affermandolo direttamente, lo lascia intendere e senza nemmeno troppa fatica. Mette in evidenza la scadenza di un giornalismo onesto, il racconto, con la tendenza dell'opinione pubblica a guardare sempre lontano dal fulcro della notizia, creando una nuvola di confusione intorno ad essa dove urla e accuse finiscono, il più delle volte, per far perdere la cognizione e l’importanza della stessa.
Il messaggio verso quel giornalismo che ormai il cinema (e la televisione) si sta spendendo per ripristinare è palese, come è palese che all’opera prima di Vanderbilt manchi l’esperienza di un regista più esperto nel manovrare e nel costruire emozioni e tensioni. E’ una pellicola solida “Truth”, non c’è che dire, ma la sua stazza è interamente composta dalla caparbietà dei suoi attori – Cate Blanchett, su tutti – nell’essere ogni volta eccellenti a tener salda la scena. Avesse costruito più scene sulla falsa riga di quella allestita nel finale, Vanderbilt (che è anche sceneggiatore), probabilmente avrebbe sbancato e allontanato qualsiasi genere di dubbio, ma purtroppo è lampante che l’intensità e il cuore – nonostante si veda nelle intenzioni – sono due caratteristiche che il suo lavoro fatica a stimolare e a far vibrare.
Di “Truth” allora resta la zavorra, la percezione del dispiacere che la conclusione amara vuole lasciare allo spettatore, congedandolo forse nel modo più corretto, ma meno piacevole allo stomaco. Sarebbe stato meglio se la Mapes e il suo team avessero riscattato il giornalismo antico su quello moderno, se alzando la voce più degli altri fossero riusciti a farsi sentire, se il loro destino non fosse poi così simile al nostro, insomma: costretto il più delle volte ad abbassare la testa e a subire terrificanti ingiustizie.
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