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Ttip, la resa dell’Europa agli Usa

Creato il 29 settembre 2014 da Albertocapece

Ttip, la resa dell’Europa agli UsaAnna Lombroso per il Simplicissimus

Mentre ne alzavano le sbarre, nessuno pudicamente ne parlava, adesso che la costruzione è quasi terminata viene propagandata con gran pompa tramite quelle vergognose “bugie progresso” delle quali ieri ha scritto il Simplicissimus a proposito dei fallaci benefici e sconti europei in materia di tariffe. Ma c’è poco di idilliaco – malgrado i fertili paesaggi che fanno da contesto allo spot trasmesso ossessivamente dalle reti Rai, o gli entusiastici e rosei commenti del quotidiano di Confindustria: ecco per­ché l’accordo com­mer­ciale Ue-Usa ‘regala’ 545 euro a ogni fami­glia euro­pea –  nel Ttip, una gabbia di norme e obblighi  che subordina le industrie europee alle multinazionali statunitensi e che sarà probabilmente approvato definitivamente entro l’anno, un quadro di  accordi che dovrebbe aggirare le sanzioni economiche contro la Russia che interrompono una parte degli scambi economici e tecnologici dell’Ue con quel paese, sostituendoli con  profittevoli “scambi atlantici”,  che renderebbe possibile il marketing bellico sia pure nelle maglie del pareggio di bilancio, in modo da rendere i doverosi servigi all’influente e prepotente partner maggioritario, stringendo un vincolo indissolubile finanziario, energetico, economico, militare che riduca la globalizzazione  al sigillo anche simbolico sul dilemma impossibile “o con gli Usa o contro gli Usa”.

Per quanto la creazione di aree sempre più estese  dove si sviluppa la liberalizzazione degli scambi internazionali non solo ha incrementato bassi salari e disoccupazione, anche all’interno del continente americano, come dimostrato dagli effetti del Nafta, ma spesso si è servita di armi di persuasione “convenzionali”, guerre, repressioni, cannoniere molto convincenti, saccheggi e limitazione della democrazia e dei diritti che dovrebbe garantire.  E non occorre essere sospettosi per indovinare che dietro alle promesse di nuova prosperità per le due sponde dell’Atlantico si nasconda l’intento non recondito di sciogliere ipotetiche alleanze tra Ue e Russia e di arginare l’espansione della Cina, lo spettro contro il quale è necessario unirsi per contenerne l’imperialismo commerciale.

In America è su questo tema che si agita il dibattito dei think tank  preoccupati che l’una e l’altra metà dell’Occidente siano destinate a perdere terreno a meno che non si riuniscano, formando un insieme nei campi della ricerca, dello sviluppo, del consumo e della finanza. In caso contrario le nazioni d’Oriente, guidate dalla Cina e dall’India, supereranno l’Occidente in materia di crescita, innovazione e reddito – e infine, in termini di proiezione di potenza militare.

Suona antistorico per non dire patetico il tentativo postumo di condensare, addomesticare e rimpicciolire quella globalizzazione tanto celebrata e che è servita all’egemonia finanziaria, decurtando certezze, diritti, lavoro. Ed è ancora più ridicolo che finga di crederci l’Europa che con questa trattato e questa strategia sancisce la rinuncia alla sovranità dei governi partner e ad una “ipotesi” unitaria, ma anche all’apertura verso paesi, nuovi mercati, innovazione.

Due giorni fa il Fatto Quotidiano pubblicava una rilevazione sulla presenza cinese in Italia, che non si sa perché dovrebbe metterci più paura delle delocalizzazioni, degli accordi di Marchionne, della svendita a compratori avidi quanto ingenerosi e scarsamente rintracciabili, della nostra dote di beni comuni.

Ma si sa il piazzista di Rignano crede ancora al mito obsoleto della Silicon Valley, risponde con zelo agli ordini del padrone d’oltre oceano, arriva ultimo (le basi dell’accordo risalgono al 1990)  nel ritenere desiderabili e improrogabili accordi sempre piú specifici e stringenti per la riduzione e la progressiva eliminazione di tutte le «barriere convenzionali» al commercio, per creare un mercato unitario di oltre 800 milioni di consumatori, gestito direttamente dai colossi aziendali e dalle multinazionali. E guai se non ci stai: “Gli obblighi dell’accordo”,  per norma statutaria prevista dall’articolo 4, “saranno vincolanti a tutti i livelli di governo”, e imporranno l’allineamento degli Stati e delle sue articolazioni territoriali  (Regioni, Dipartimenti, Comuni), pena sanzioni finanziarie.

E noi? sempre più subalterni, sempre più assoggettati, acquistiamo una nuova centralità come base  della Nato, rampa di lancio, dispensa per approvvigionamenti, presidio meridionale di questo format imperialista che ha concentrato – lui sì – i poteri forti, economico, finanziario, bellico, politico, sociale e culturale, tanto che ha guidato la nostra normalizzazione, indebolendoci, commissariandoci, smantellando l’assetto costituzionale, comprandoci, corrompendoci perfino facendoci sognare lo stesso sogno, fosse anche un incubo.   Serviva un paese retrocesso a entità servile, a colonia sia pure occidentale per soggiacere al mercantilismo, preparandolo minuziosamente con l’abiura della partecipazione, dello stato di diritto, della democrazia, se non  si tratta solo di abbattere barriere doganali ma di  “affrontare gli ostacoli dietro il confine doganale, come differenze di regolamentazioni tecniche, normative e procedure di approvazione”, in sostanza di manomettere le  leggi e di trasformarle secondo le esigenze delle multinazionali, così come ci hanno abituato a fare con promulgazioni ad personam, Porcelli, riforme della giustizia, svendite del territorio, cancellazione del lavoro per introdurre ricatto e precarietà. E ci siamo assuefatti anche a credere alle minacce dei più cialtroni così come alle loro promesse. Perfino le analisi commissionate dall’Ue  non nascondono che gli aumenti in ter­mini di Pil e di salari reali potranno andare  dallo 0.3 all’1.3%, ma  nel corso di un «periodo di tran­si­zione» di 10–20 anni. E che i benefici dell’accordo sul volume degli scambi com­mer­ciali, l’Öfse  promettono un aumento delle espor­ta­zioni dell’Ue nel suo com­plesso, ma  a bene­fi­ciarne   saranno soprat­tutto i grandi gruppi indu­striali, a sca­pito delle Pmi,  quelle che costituiscono l’ossatura delle export italiano.

Ma ormai perfino del grandi rapine del secolo, dietro alle pompose liturgie mediatiche e fuori dalle segrete stanze dei negoziati dell’iniquità, hanno bisogno di manovalanza, di qualcuno che faccia il palo, e se non sa l’inglese, meglio. Potrà sempre dire di non aver capito.

  

 


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