Curiosamente simile nei contenuti a molti film d’animazione della rivale Disney/Pixar, per quanto a detta del regista David Soren (cosceneggiatore insieme a Darren Lemke e Robert D. Siegel) la primaria fonte d’ispirazione debba rinvenirsi in All American Boys (Breaking Away, Peter Yates, ‘79), Turbo, ultima realizzazione DreamWorks, sembra condividerne l’iter verso una fase di riflusso, forse momentanea. Accantonate o, meglio, mitigate, le strizzatine d’occhio rivolte agli adulti, si ritorna ad una messa in scena più immediata, con uno script lineare e prevedibile nel suo schematismo programmatico. Le varie gag puntano al semplice intrattenimento, ad un coinvolgimento soprattutto visivo, con la sensazione che, rimarcando la sempre efficace resa complessiva, tutto sia stato studiato a tavolino (in particolare il parallelismo fra il mondo dei molluschi protagonisti e quello degli umani), per soddisfare un ben determinato target fanciullesco, con più di un occhio volto al franchising.
L’allenamento di Theo/Turbo
Una chiocciola da giardino, non del tutto integrata nel contesto sociale in cui vive, è derisa per coltivare l’assurdo sogno di divenire un mollusco da corsa e partecipare ad una gara automobilistica.Theo, questo il suo nome, emulo del pilota Guy Gagnè, si allena duramente e con dedizione (un metro circa in meno di 17 minuti …), mentre il fratello Chet lo invita a tenere il guscio saldo per terra, concentrandosi sul sicuro lavoro in pianta stabile (l’alleggerimento quotidiano di una piantagione di pomodori), nonostante i pericoli siano sempre in agguato, dall’assalto delle cornacchie alla famigerata giornata del giardiniere, passando per un bambino particolarmente sadico, scorrazzante a bordo del suo triciclo.
Complice uno scontro con un’automobile truccata il nostro gasteropode, già auto appellatosi Turbo, potrà godere di una robusta iniezione di potenza, tanto da riuscire a gareggiare, dopo una serie di vicissitudini, alla 500 miglia di Indianapolis, forte di un team a formazione mista, chiocciole da corsa (Frusta, Fighetto, Fiamma, Sbandone e Ombra Lesta) ed una variegata compagine umana, capeggiata da Tito, venditore di tacos in società col fratello Angelo e anche lui sognatore in grande …
Turbo e le chiocciole da corsa
Piuttosto realista nell’ambientazione, dai sobborghi californiani al mitico circuito di Indianapolis, stilizzato nella resa grafica dei personaggi, le cui peculiarità caratteriali appaiono troppo standardizzate, Turbo pone rimedio con una regia piuttosto guizzante alla piattezza del plot narrativo, il quale mantiene a tratti qualche lieve tocco cinico e sprazzi inventivi made in DreamWorks (le citate cornacchie che decurtano puntualmente la comunità di qualche membro, la visualizzazione dei sogni di Theo). Riesce, in parte, nell’intento di rendere verosimile un’idea palesemente stramba, ovvero una chiocciola che diviene un bolide da corsa e si fa simbolo del consueto percorso, condiviso con l’umano Tito, inerente a chi, pur conscio dei suoi limiti, non si arrende all’idea che quest’ultimi possano offuscare i sogni più intimi: persegue l’obiettivo sino in fondo e taglia il traguardo della piena consapevolezza di sé, conscio del posto da occupare nel mondo e della necessaria integrazione sociale, rispettando le proprie ed altrui diversità. Bambini a parte, il cui coinvolgimento, a giudicare dalle reazioni in sala, è assicurato, Turbo assicura comunque momenti decisamente divertenti anche agli adulti volontari alla visione, a patto di lasciare spazio per un’ora e mezza al fanciullino di pascoliana memoria, prossimo a palesarsi in virtù di alcune sequenze ben riuscite (l’apertura iniziale in primo luogo e poi la gara ad Indianapolis, difficile non entusiasmarsi e fare il tifo per Theo, pardon: Turbo…) per poi scomparire in altre (la parte centrale, dall’acquisizione dei superpoteri sino all’incontro con le chiocciole da corsa e gli umani appare sin troppo prevedibile). In definitiva resta la sensazione di aver assistito ad un’opera minore, di transizione, rispetto agli ultimi lavori DreamWorks (I Croods), forte di un’intuizione sincera, voler visualizzare una follia, senza riuscire però a conferirgli un costante apporto immaginifico nel cavalcare l’incredibilità.