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Turbolenze egiziane: una riflessione strategica sulla posizione statunitense delle prime ore
Creato il 27 novembre 2011 da ProspettivainternazionaleNell'articolo "Turbolenze egiziane" pubblicato il 22 novembre scorso, ho fatto il punto sulle difficoltà che la Casa Bianca avrebbe dovuto fronteggiare nel prendere una posizione sui recenti fatti d'Egitto. Nei giorni scorsi questo punto è diventato motivo di riflessione per molti analisti, anche alla luce delle scelte compiute da Washington.
Non potendo optare per un low profile, l'amministrazione Obama ha scelto in prima battuta la "linea della credibilità" schierandosi in favore delle istanze della piazza. Il 25 novembre, tramite il segretario dell'agenzia stampa, la Casa Bianca ha esortato i militari a trasferire pieni poteri ad un esecutivo civile e ha condizionato il sostegno degli Stati Uniti nei confronti dell'esercito al modo in cui questo sosterrà la transizione verso la democrazia.
La strategia di Washington
Diversi osservatori tra i quali Martin Indyk della Brookings, hanno posto in evidenza i rischi elevati che l'attuale posizione statunitense comporta: alla fine delle danze, a beneficiare di un processo pienamente democratico potrebbe essere qualche gruppo i cui interessi non collimano con quelli statunitensi.
Questo tipo di osservazioni mi sembra ragionevole. Allo stesso tempo però non posso fare a meno di notare che, vista in prospettiva, l'attuale posizione di Washington potrebbe avere le caratteristiche di una scelta diplomaticamente e tatticamente ben calibrata.
A mio avviso, la chiarezza e il tempismo della posizione statunitense potrebbero essere tematizzate in una strategia animata da due linee d'azione fondamentali e dal tentativo di non farle entrare in collisione.
La prima linea è quella della credibilità. Una massima cinese (al momento non ricordo se è attribuita a Mao Zedong o a Deng Xiaoping) recita più o meno così: chi rincorre contemporaneamente due conigli rischia di non catturarne nemmeno uno. Un lecito corollario è quello di cercare di mantenere un buon grado di coerenza nelle proprie azioni per ottenere dei benefici futuri.
Le attuali dichiarazioni della Casa Bianca ci fanno capire che gli USA hanno deciso di elaborare la posizione assunta nelle rivolte che hanno portato alla destituzione di Mubarak come l'inizio di un discorso reale (quello ideale era cominciato nel 2009 con il famoso discorso di Obama al Cairo) nei confronti dell'opinione pubblica egiziana. L'obbiettivo è quello di fare in modo che l'immagine degli Stati Uniti passi da "i finanziatori del passato regime" a "i sostenitori della libertà del popolo egiziano". Le ricadute positive di questo passaggio non si limiterebbero al solo Egitto ma si inserirebbero nel più ampio contesto mediorientale.
La seconda linea riguarda la necessità imprescindibile di mantenere l'intesa con l'esercito egiziano. Per mantenere in Egitto una solida testa di ponte bisogna necessariamente poter contare sull'esercito che non solo svolge storicamente un ruolo di primaria importanza nell'assetto politico del Paese ma, in un'ipotetica situazione di democrazia in salsa egiziana, dovrebbe rappresentare l'elemento di continuità nella tutela degli interessi statunitensi a fronte del cambiamento dei governi, o, se si vuole, una sorta di freno d'emergenza.
Chi influenza chi? Il vantaggio della prima mossa
In alcune situazioni, riuscire a muovere per primo può comportare dei benefici strategici derivanti dal fatto di mettere l'altro nella condizione di doversi adattare alla nostra scelta iniziale. In questo primo frangente della partita che si gioca tra la società civile e l'esercito egiziano, gli Stati Uniti sono riusciti a tutelare entrambe le direttrici strategiche cogliendo il vantaggio della prima mossa.
Si noti infatti che al momento e per vari giorni durante le manifestazioni le vere intenzioni dei militari non sono state chiare; in merito ci sono segnali discordanti: da un lato essi sostengono di voler guidare il Paese verso la democrazia ma dall'altro non fanno niente di concreto per dimostrarlo inequivocabilmente. Una tesi interessante è quella avanzata da Steven Cook secondo il quale questo comportamento dei militari si spiegherebbe alla luce del fatto che essi contano di ottenere l'appoggio di quella "maggioranza silenziosa" che non partecipa alle proteste.
Ipotizziamo dunque che i militari abbiano intenzione di consolidare il potere di governo nelle proprie mani o di continuare a manovrarlo dietro la facciata della democrazia. Nell'ambito della strategia che qui ho ipotizzato, Washington avrebbe fatto benissimo a giocare di anticipo esprimendosi in modo privo di fraintendimenti in favore della piazza e della democrazia. Un atteggiamento attendista ed ambiguo avrebbe sortito un effetto negativo sull'opinione pubblica egiziana e, cosa ancora più negativa, avrebbe messo l'iniziativa nelle mani dei militari. Qualora questi fossero usciti esplicitamente allo scoperto e avessero preso una posizione chiara e decisa, gli USA avrebbero dovuto scegliere se adattarvisi ma perdere la piazza o mantenere la piazza ed inimicarsi l'esercito. Trovare una via di mezzo che salvaguardasse entrambe le istanze strategiche sarebbe stato molto complicato in questa situazione.
Una situazione in continua evoluzione
Adesso tocca ai militari scegliere l'atteggiamento da assumere nei confronti della piazza e dunque la posizione da comunicare in risposta alle scelte degli Stati Uniti. Una cosa è certa, nella tutela della propria influenza e nell'ambito degli schemi tradizionali di esercizio del potere gli Stati Uniti e l'esercito egiziano hanno bisogno l'uno dell'altro; sganciarsi da questo matrimonio d'interesse sarebbe molto costoso in quanto significherebbe alterare un meccanismo già rodato e funzionante e mettere in discussione una configurazione geopolitica ben consolidata.
Tuttavia bisogna riconoscere che siamo solo alle battute iniziali di una storia in cui è in gioco il futuro dell'Egitto e in cui le condizioni e le posizioni relative degli attori sono destinate a mutare. Domani, 28 novembre, in un'atmosfera tormentata dovrebbe avere inizio quello che si prospetta come un lungo e travagliato processo elettorale.
26 novembre 2011
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