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Turchese

Da Parolesemplici

 

Turchese

L’acqua del mare quel giorno era turchese screziato. I tuoi occhi smeraldo cercavano un approdo e alla fine lo trovarono.

Il mare in bonaccia invitava alla quiete e al rilassamento più puro. Altrove c’era tempesta, me ne accorsi in ritardo.

Mi prendesti le mani e mi fissasti. Quel silenzio attorno era opprimente, come l’afa che respiravamo. Ti facesti più vicino e solo allora li notai. Quei lampi verdi nel tuo sguardo recavano messaggi in codice.

Il calore del tuo corpo mi distolse, per un’improvvisa brama di carezze. Fu spontaneo baciarti e toccare la tua pelle accaldata. L’antico languore mi prese e cominciai a desiderare il tuo corpo.

In piedi sulla battigia deserta, il desiderio di possederti non era più selvaggio. Era naturale, come respirare.

Il tuo respiro caldo sul collo mi annientava la ragione e le mie mani correvano su di te senza posa.

Sentii il tuo mutamento.

Il vigore muscolare marcatamente sensuale, veniva contrastato da un’altra forza altrettanto uguale.

Dobbiamo smettere, mi dicesti all’orecchio regolando il respiro. Ti guardai negli occhi che divennero sempre più cupi e lessi il messaggio.

Mi staccai dal tuo corpo e compresi che non era pudore il tuo.

Era la fine.

Annunciavi la fine a stento temuta, ultimamente agognata, per l’impossibilità di entrambi. Per le nostre rispettive famiglie e per i nostri figli.

Il mio tempo assieme a te era scaduto e non possedevo neppure un supplemento o una ricarica gratuita.

Pensare che da lì a qualche ora dopo avrei indossato la solita maschera, mi dava la nausea.

Guardai l’orizzonte che allora si fondeva con la linea turchese del mare e gli corsi incontro come si va incontro al salvatore.

Mi immersi in quel mare caldo con tutta la rabbia addosso. Volevo sentirmi libera da tutto e l’acqua attorno a me mi procurava il piacere negato.

Mi chiamavi ad alta voce, ma non ti sentivo. Solo acqua, dentro e fuori di me.

Poi sentii le tue braccia afferrarmi e riportarmi con forza verso la riva.

Esausti, i nostri corpi distesi sulla battigia, rimasero in ascolto del silenzio. Passammo alcuni minuti sospesi in un limbo inerte ed immoto, uno vicino all’altro.

Poi, il volo di un gabbiano.

Ti sentii improvvisamente su di me. Cercavi convulsamente le mie labbra, per placare la tua sete. Mi abbandonai dolcemente al tuo sensuale impeto e mi augurai di rimanere in quella posa, sino alla fine dei giorni. Mi guardasti negli occhi, per l’ultima volta e a bassa voce mormorasti un addio.

Ti separasti da me e cominciasti a camminare verso la moto.

Sentii il rombo del motore acceso, un misto di rabbia e potenza decodificati in lucente vernice rossa, allontanarsi e perdersi nel silenzio. Rimasi immobile e con gli occhi chiusi per chissà quanto tempo, lì supina sulla sabbia, in attesa.

Grandi gocce di acqua mi colpirono dal torpore d’incoscienza e aprii gli occhi. Cominciava a piovere.

L’afa è finita, pensai. Tutto sarebbe rientrato nella norma.

Mi rimisi in piedi e solo allora mi accorsi dello stato in cui ero. La pioggia cadeva giù fitta e pesante e il turchese era dappertutto, persino nell’aria che respiravo.

Corsi verso l’auto per ripararmi, non ricordo da cosa e mi voltai a guardare la massa turchese in movimento.

Ti odio, urlai.

E le lacrime si unirono alla pioggia.

Carlotta Laterza

 


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