Posted 11 dicembre 2013 in Slider, Storia, Turchia with 0 Comments
di Carlo Pallard
Çirkin Afrikalı, brutto africano: così titolava in prima pagina, riferendosi a Nelson Mandela, il giornale turco Hürriyet del 18 maggio 1992. Pochi giorni prima l’eroe della lotta all’apartheid si era rifiutato di ritirare il Premio Atatürk per la Pace, motivando la sua scelta con lo scarso rispetto dei diritti umani in Turchia. Un terribile affronto, a cui il quotidiano kemalista rispose con una violenza verbale inaudita, accusando il leader dell’African National Congress di essere un terrorista e di avere legami con il PKK. Ma a colpire più di ogni altra cosa è il linguaggio ingiuriosamente razzista utilizzato, già a partire dal titolo, nei confronti di quel “negro” (zenci) che, rifiutandosi di ritirare il premio dedicato ad Atatürk, aveva osato offendere il nome della Turchia e del suo fondatore.
L’uscita di Hürriyet su Mandela costituisce senza ombra di dubbio uno degli episodi più vergognosi nella storia della Turchia contemporanea, ma è comunque necessario contestualizzare l’evento nel clima politico e culturale di quegli anni. Il decennio inaugurato dal colpo di stato del 1980 fu caratterizzato dall’emergere di una retorica ufficiale ossessivamente nazionalista e reazionaria, sotto l’egida dei militari, protagonisti della vita del paese anche dopo la restaurazione della democrazia. Nel 1992 la Turchia rimaneva caratterizzata dal medesimo clima. Al momento della pubblicazione dell’articolo di Hürriyet, il Presidente della Repubblica era Turgut Özal, leader del conservatore Partito della Madrepatria (Anavatan Partisi, ANAP) e assoluto protagonista degli anni ’80, mentre il governo era costituito da un’eterogenea alleanza tra il Partito della Retta Via (Doğru Yol Partisi, DYP) del premier Süleyman Demirel, e il Partito Populista Socialdemocratico (Sosyaldemokrat Halkçı Parti, SHP) guidato da Erdal İnönü. Il DYP aveva origini culturali e politiche di centro-destra, mentre il SHP portava avanti un discorso kemalista con venature progressiste e di sinistra, ma erano comunque uniti dalla medesima ideologia nazionalista, peraltro condivisa anche dalla gran maggioranza dei partiti di opposizione. Proprio all’inizio degli anni ’90 il progressivo inasprirsi della questione curda nel sud-est del paese e il cambio di scenario internazionale dovuto alla fine della guerra fredda, con effetti travolgenti nei Balcani e nel Caucaso, presentarono nuove sfide a cui l’opinione pubblica turca rispose inasprendo ulteriormente il proprio nazionalismo esasperato.
Proprio la storia del Premio Internazionale Atatürk per la Pace (Atatürk Uluslararası Barış Ödülü) può essere usata come emblema del periodo storico che la Turchia visse tra gli anni ’80 e ’90. Nato ufficialmente come riconoscimento verso le personalità che hanno contribuito in modo particolare a sviluppare la pace nel mondo, esso fu assegnato nel corso degli anni ’90 a personaggi come il generale golpista del 1980 Kenan Evren, l’autoritario presidente azero Haydar Aliyev e il leader dello stato fantoccio turco-cipriota Rauf Denktaş: quasi un premio al nazionalismo turco. Facile quindi individuare in Mandela un intruso nella lista delle personalità insignite da questo riconoscimento, e capire le motivazioni del suo rifiuto. Allo stesso modo, il patriottismo isterico che impregnava il discorso pubblico della Turchia negli anni ’90, aiuta a spiegare la sconcertante reazione di Hürriyet.
Da allora molte cose sono cambiate in Turchia. Soprattutto negli anni successivi al “colpo di stato postmoderno” del 1997, la situazione politica e sociale si è gradualmente normalizzata. La Turchia rimane un paese con grandi contraddizioni e problemi insoluti, ma va riconosciuto come sia stata in grado di uscire gradualmente dalla sua chiusura nazionalista per affacciarsi in modo più sereno all’Europa e al mondo. L’emergere ai vertici dello stato di un partito conservatore e religioso, ma per gli standard turchi non particolarmente nazionalista, come l’AKP e le prospettive di integrazione nell’Unione europea, hanno sicuramente contribuito a questo parziale mutamento. La morte di Mandela – che nel frattempo aveva ammorbidito le sue posizioni accettando di ritirare il premio nel 1999 – è stata accolta in Turchia con commozione come in tutto il resto del mondo. Tutti i principali media turchi, compreso lo stesso Hürriyet, hanno tributato grandi onori all’ex presidente sudafricano.
Eppure ci sono ancora segnali che vanno nella direzione opposta. Drogba ed Ebouè, calciatori africani del Galatasaray, rischiano sanzioni disciplinari per avere reso omaggio a Nelson Mandela durante una gara di campionato. Per la Federcalcio turca si tratta di un atto politico, e per tanto vietato negli stadi. Ricordare i morti non ha però nulla a che vedere con la politica, e questo è forse ciò che hanno pensato Gül e Erdoğan, tra i pochi grandi leader mondiali a non aver presenziato ai funerali di Mandela. La politica turca sembra quindi ancora oggi non capire in tutta chiarezza l’importanza del messaggio che una persona come Nelson Mandela ha lasciato al mondo contemporaneo.
Accanto all’inqualificabile insulto rivolto da Hürriyet a Mandela nel 1992, c’era un disegno, presente su tutte le prime pagine del quotidiano: un ritratto stilizzato di Atatürk accanto ad una bandiera turca, e l’inequivocabile scritta Türkiye Türklerindir, la Turchia è dei turchi. Se la Turchia di oggi pensa di essere ancora rappresentata da questo slogan, là per uomini come Mandela non c’è chiaramente posto. Ma per un paese che si identifica con una retorica nazionalista di questo tipo, non ci può neppure essere spazio in Europa. Il trattamento riservato dalla Turchia a Mandela ci porta dunque al cuore della questione di cosa la Turchia vuole essere. La risposta la potrà dare solo il popolo turco, quello stesso popolo che in questi giorni ha condiviso con sincerità il dolore per la perdita di un uomo così grande come Nelson Mandela.
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