Il 15 e il 16 settembre 2010 si è svolto a Istanbul il primo summit del Consiglio di cooperazione degli Stati turcofoni: che secondo Abdullah Gül sono “una sola nazione divisa in sei Stati fratelli”. Presenti, oltre al presidente turco, i suoi omologhi Aliyev per l’Azerbaigian, Nazarbayev per il Kazakistan, Otunbaeva per il Kyrgyzistan e Berdimuhammedov per il Turkmenistan; assente solo l’Uzbekistan, come pure il Tagikistan persianofono e impegnato in un più ristretto tentativo regionalista con Iran e Afghanistan. La dichiarazione conclusiva del vertice è ricca di decisioni concrete: l’istituzione di un segretariato generale, in riva al Bosforo; la periodicità regolare degli incontri del Consiglio di cooperazione ai livelli di capi di Stato, di ministri degli Esteri, di alti funzionari; la creazione di una fondazione per la valorizzazione del patrimonio culturale e linguistico comune, con sede a Baku in Azerbaigian; l’apertura di un grande museo di storia dei popoli turchi, ad Astana in Kazakistan; l’accordo per la nascita di un organismo specifico dedicato alla cooperazione economica, con la possibilità ancora allo studio di affiancargli una Banca per lo sviluppo e una Compagnia d’assicurazioni per finanziare le attività private nei settori non legati all’energia (ma l’esportazione degli idrocarburi del Caspio rimane prioritaria). Nessun irredentismo, quindi; nessun progetto egemonico ispirato al panturanesimo: solo la volontà di diffondere democrazia, economia di mercato, sicurezza e sviluppo – in tutta la regione – anche attraverso la riscoperta dei legami culturali e religiosi spezzati dal totalitarismo comunista (la Piattaforma di cooperazione per la stabilità e la cooperazione che nelle intenzioni di Erdoğan avrebbe dovuto contribuire a superare il contenzioso tra Turchia, Russia, Georgia, Armenia e Azerbaigian – anche attraverso lo sviluppo economico – non ha convinto i partner e giace sulla carta).
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