Più Europa, più democrazia. La crisi – inattesa e furibonda – che ha trasformato molte città della Turchia in terreno di scontri tra polizia e manifestanti, tra governo e opposizioni, ha anche provocato tensioni con l’Unione europea: le autorità di Ankara hanno replicato con esplicito fastidio a una dura risoluzione di condanna del Parlamento di Strasburgo – considerata “priva di valore”, frutto di “scarsa informazione” e “doppi standard” – e alle dichiarazioni dei vertici politici di Bruxelles, soprattutto a quelle di Lady Ashton, responsabile per la politica estera dei 27. Anche l’olandese Ria Oomen-Ruijten, eurodeputata relatrice sulla Turchia, in sede di dibattito ha espresso critiche dirette: “Se il primo ministro Erdoğan fosse stato più accorto, se il suo linguaggio fosse stato più accorto, se anche lo stile di governo nei confronti di chi non ha votato per lui fosse stato più accorto, [questa crisi] non si sarebbe verificata”.
È forse questo l’ultimo capitolo nei rapporti tormentati tra Turchia e Unione europea, l’episodio che metterà fine ai negoziati di adesione partiti nel 2005 ma arenatisi – tra veti e incomprensioni – da ormai tre anni? Non necessariamente. L’ondata di proteste delle ultime settimane – nate nel parco Gezi di Istanbul e che hanno poi scosso una parte rilevante della Turchia (ma nelle zone in cui il Partito della giustizia e dello sviluppo – Akp – è più forte, le proteste sono state assai meno significative: e anche in quelle del Sud Est a maggioranza curda non si sono riscontrati scontri) – può invece rappresentare l’occasione giusta per rimettere in moto in modo decisivo il processo. L’auspicio è soprattutto del commissario europeo all’allargamento, Štefan Füle, che prima a Istanbul, in occasione di una conferenza sulla Turchia e l’Ue, e poi a Strasburgo ha raccomandato vigorosamente di aprire quanto prima i capitoli negoziali 23 e 24, dedicati rispettivamente alla “magistratura e diritti fondamentali” e alla “giustizia, libertà e sicurezza”.
Del resto, il 26 giugno è in programma – ma la decisione definitiva non è stata ancora presa e il perdurare delle proteste e degli scontri potrebbe provocare cambiamenti – l’apertura di un nuovo capitolo negoziale: il numero 22 sulle politiche regionali, cruciale per il decentramento amministrativo e lo sviluppo delle aree depresse del paese – l’auspicio soprattutto del Sud Est a maggioranza curda. E in effetti, al di là dei negoziati formali e nonostante l’aspra retorica (o le cattive e infondate interpretazioni di alcuni organi di stampa) e i veti francesi e greco-ciprioti, negli ultimi anni la Turchia e l’Europa si sono oggettivamente avvicinate: sono stati elargiti e rinnovati cospicui fondi “pre-accessione” per l’adeguamento agli standard europei di norme e pratiche amministrative; la cosiddetta agenda positiva voluta proprio da Füle ha permesso l’avanzamento di negoziati informali e paralleli anche in tema di energia e di politica estera, oltre che di giustizia e diritti fondamentali. Rimane da eliminare l’ostacolo più ostico, la politica restrittiva dei visti nei confronti dei cittadini turchi: percepita come ingiusta e discriminatoria, che in concreto rallenta fortemente la circolazione di persone e idee e i processi di conoscenza reciproca, al di là dei pur utili e partecipatissimi programmi di scambi formativi e culturali come l’Erasmus.
Ma il ministro degli Esteri Davutoğlu non è assolutamente soddisfatto; “una rondine non fa primavera”, ha dichiarato il mese scorso durante un viaggio a Bruxelles: nel senso che un capitolo non basta, bisogna aprirne quanti più possibile – e in breve tempo – per dare alla Turchia una prospettiva credibile di adesione. È quanto si augura anche il suo omologo italiano Emma Bonino, che, presentando alla Camera il punto di vista del governo sui fatti di Istanbul, ha criticato il rallentamento nei negoziati provocato da alcuni paesi Ue: “Io credo sia stata una visione miope, un arretramento della prospettiva europea della Turchia, compiuto proprio nel momento in cui vi era più bisogno di sostenere il consolidamento degli standard democratici del Paese”. Perché è proprio l’Europa dei diritti e delle libertà la miglior garanzia del completamento della transizione del Paese anatolico – avviata proprio dall’Akp di Erdoğan – da regime autocratico militarista a democrazia avanzata. Più Europa, più democrazia.
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