Turchia: un boccone alla volta

Creato il 28 ottobre 2011 da Istanbulavrupa

(il mio articolo completo sul seminario all’Institut du Bosphore, in eclusiva per la newsletter Develop.med dell’Istituto Paralleli)

Dalla Senna al Bosforo. Mentre il presidente Nicolas Sarkozy rimane uno dei più ingombranti e tenaci ostacoli sul cammino di Ankara verso Bruxelles – però destinato tra sei mesi o tra sei anni a essere rimosso – la Turchia e la Francia continuano ad avere eccellenti rapporti economici e culturali, salvaguardando anche quelli politici più sinceri e di lunga data. Un’amicizia nata in campo diplomatico, con l’alleanza cinquecentesca – allora scandalosa – tra il re cristianissimo Francesco I e il sultano ottomano Solimano il Magnifico contro l’imperatore Carlo V. Le élites turche che appartengono alla grande borghesia sono francofone: sono francofoni i licei più esclusivi, di antica tradizione e di origini cattoliche (come Saint-Benoît, il più antico che risale al XVI secolo, e Saint-Joseph); nel 1992, su iniziativa del presidente Mitterand, è stata fondata l’università pubblica e francofona di Galatasaray.

In questo paradossale contesto – fiorente interscambio culturale ed economico, ostilità dei vertici politici pro tempore francesi all’ingresso della Turchia nell’Unione europea – è nato nel 2009 l’Institut du Bosphore: un think tank franco-turco animato da intellettuali, docenti universitari, politici, ricercatori, uomini d’affari e sovvenzionato da grandi gruppi economici – in primis, dalla Tüsiad che riunisce le maggiori holdings imprenditoriali turche. Gli obiettivi prioritari: evitare che le relazioni bilaterali – complesse e turbolente – si degradino ulteriormente e riflettere sulle modalità suscettibili di rilanciare la partnership. In attesa di esiti elettorali favorevoli, già da subito. L’istituto è organizzato come “spazio di dibattito permanente”: confeziona studi e analisi, propone incontri col mondo politico ed economico nelle più importanti città francesi, organizza dei seminari annuali – alternativamente a Istanbul e a Parigi – per confrontarsi sui grandi temi di diretta rilevanza per la Turchia e la Francia.

Nel 2011, il 29 e 30 settembre, è stato il turno della capitale ottomana: e il programma ha toccato le sfide dell’economia e della finanza globale nell’anno della presidenza francese del G20 (di cui anche la Turchia è membro fondatore), la primavera araba e le prospettive democratiche nel Mediterraneo, l’impatto delle nuove tecnologie sulla produzione industriale e sul consumo di energia (l’economia verde).

Nonostante le buone intenzioni degli organizzatori, desiderosi di volare alto, è stato però impossibile cancellare il retrogusto di offeso risentimento che deriva dal gran rifiuto di Sarkozy: contrario all’ingresso della Turchia nell’Unione europea – quando fa parte di praticamente tutte le altre istituzioni continentali – in virtù di anti-storiche e poco credibili ragioni d’incompatibilità. In apertura, si sono pronunciati all’unisono Ümit Boyner, presidente di Tüsiad e padrona di casa, e Ali Babacan, vice-premier e ospite d’onore: il presidente Sarkozy, per un pugno di voti in più, ha assunto una posizione platealmente populista, speculando sulle paure di un’elettorato minacciato dalla crisi e spaventato dal diverso; e dello stesso avviso, durante la cena di gala nel suggestivo museo Rahmi M Koç dedicato all’industria e ai trasporti, è stato il ministro dell’economia Zafer Çağlayan. Una posizione miope e autolesionista, quella di Sarkozy.

Ma i due rappresentanti di spicco del governo e del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp, conservatore e d’ispirazione islamica) – servendosi di dati inoppugnabili e aneddoti personali, come i 105 viaggi all’estero in due anni di Çağlayan – hanno rivendicato il buon esito delle riforme politiche ed economiche attuate in questi anni, hanno vantato una sostanziale immunità dalle conseguenze disastrose della crisi globale, hanno evidenziato l’importanza cruciale della stabilità assicurata dal loro partito come garanzia di eccellenti performances macroeconomiche e commerciali, hanno ribadito che l’ingresso a pieno titolo nell’Europa dei 27 rimane la priorità di lungo periodo per la Turchia, hanno suggerito che saranno anche i paesi europei – in virtù dei fragorosi tassi di crescita della Turchia, della sua popolazione giovane e dinamica, della sua capacità formidabile di penetrare sui mercati orientali, della sua posizione decisiva sulle rotte del petrolio e del gas – a trarre cospicui vantaggi dall’auspicata fusione. Un’analisi condivisa nella sostanza, ma presentata col distacco dell’economista e non con l’enfasi del politico, da Kemal Derviş (intervenuto in videoconferenza), ex capo dello United Nations Development Programme (Undp) ed ex ministro turco dell’economia, al quale si deve l’avvio della stagione delle riforme – nel biennio 2001-2002 – che hanno poi permesso il boom del decennio successivo. Ma Babacan è stato anche beffardo: “se l’Europa ci chiede aiuto… ma possiamo darle dei buoni consigli fin da subito”.

La sessione di maggior spessore e attrattiva è stata comunque quella dedicata al Mediterraneo: nella quale si sono confrontati – e a volte scontrati – specialisti del calibro di Gilles Kepel e Alexandre Adler, altri colleghi d’accademia, il deputato del partito d’opposizione Chp Osman Fahri Korutürk e il professor Soli Özel – con le conclusioni, in verità non particolarmente incisive, affidate all’ex ministro degli esteri Hubert Védrine. Kepel, docente a Sciences Po a Parigi e autore di testi fondamentali sull’Islam politico (La rivincita di Dio, Jihad, Fitna), è dell’idea che la primavera araba – unita alla morte di Osama bin Laden – abbia “cancellato la maledizione dell’11 settembre”: perché, dopo essere stato per un decennio intero indebitamente assimilato ad al-Qaeda, il mondo arabo “potrà far intendere la sua voce sul piano politico ed entrare nel tempo globale”. O una pluralità di voci, piuttosto; perché Kepel ha dettagliato le peculiarità di tre diverse aree geografiche, le cui caratteristiche influenzeranno l’esito delle trasformazioni in corso: l’Africa settentrionale delle rivoluzioni, le cui dinamiche sono essenzialmente interne e legate a logiche di successione nell’ambito di regimi sclerotizzati (e dove il “modello turco” può risultare estremamente attraente, nonostante le resistenze della vecchia guardia dei Fratelli musulmani); la penisola arabica dai sistemi politici arcaici, però ricca di risorse energetiche e quindi dipendente dalle esigenze di attori esterni; il Levante, in cui la presenza di Israele e le fratture etnico-confessionali rendono anche la più piccola delle evoluzioni potenzialmente catastrofica.

Adler, storico ed editorialista esperto di geopolitica, è stato invece l’unico ad affrontare in modo ampio e sistematico il tema forse cruciale: il ruolo della Turchia in Medio oriente, sia come “fonte d’ispirazione” per le transizioni politiche ed economiche in corso, sia come attore desideroso di proiettare nella regione tutto il suo peso. La Turchia dell’Akp, anche per Adler, è un “grande successo democratico”: ma nella sua interpretazione, il partito di origini islamiste guidato da Recep Tayyip Erdoğan ha però potuto trasformarsi in forza politica compatibile col sistema – e poi assicurare buon governo e crescita economica – solo grazie all’esistenza di forze laiche ben radicate che ne hanno tenuto a freno gli accessi; e queste forze laiche, nel resto del mondo arabo, continuano a esistere ormai nella sola Tunisia: altrove non hanno mai attecchito (penisola araba) o sono state spazzate via (Egitto). Adler è però preoccupato dall’attivismo in politica estera del ministro Ahmet Davutoğlu: perché se da una parte la Turchia – potenza emergente – è in grado di esercitare una benefica influenza stabilizzatrice, dall’altra sono stati compiuti – per troppa precipitazione – errori anche clamorosi (Israele e Cipro su tutti, con in più le “esitazioni” sulla Siria”); e propone per Ankara una strategia di lungo periodo impostata su tre cardini: l’ancoraggio europeo, così da diventare la voce dell’Europa nelle sue periferie meridionali e orientali; l’alleanza con l’Iran, fondata sulla compatibilità tra le rispettive società civili (ma dando sostegno alle forze riformatrici); l’impegno nei negoziati di pace tra Israele e Palestina, se saprà ricucire con Tel Aviv. Una strategia a lenta maturazione, che richiede pazienza: “un boccone alla volta, resistendo alla tentazione di divorare il mondo intero”; prescrizioni spiazzanti: che, sicuramente, continueranno a essere dibattute anche il prossimo anno, stavolta sulla Senna.



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