Iniziamo con il precisare che questo non sarà un post sull’Unità d’Italia, non sarà un post storico né si concentrerà sulla figura di Garibaldi. Al suo posto avrei potuto disegnare Sartre, che forse con l’argomento di oggi c’entra un po’ di più. Non sarà veicolo di anacronistico e immotivato patriottismo né di infondato e pretestuoso separatismo. Non chiamerò Garibaldi eroe, sebbene ritenga che la sua figura non abbia nulla da invidiare a Che Guevara. Al massimo ce n’ha da invidiare a Pisacane, ma non dilunghiamoci. Andiamo al dunque.
Il dunque è che certuni fanno risalire l’origine dei mali d’Italia alla nascita della nazione, senza rendersi conto che il ragionamento è riassumibile in quel famoso verso “era meglio morire da piccoli”, o nella invariata, atavica, maledizione che si scambiano gli ex durante l’ultimo addio “non t’avessi mai conosciuto”, che equivale a “non fosse mai nata questa storia con te”. È irrazionale incolpare l’origine di qualcosa che è cambiata in peggio, ma che altro non fu se non frutto d’amore. L’impresa garibaldina è stato solo l’apice epico di ferventi nazionalistici che infiammavano i petti già da un po’, almeno a partire dall’esilio di Napoleone e dal ritorno dei re.
Cosa sarebbe l’Italia oggi se non ci fosse stata l’unificazione? Non lo sappiamo. Di certo la Sicilia sarebbe periferia dell’impero statunitense, un deserto militarizzato. Tutta la storia del bacino mediterraneo, insomma, sarebbe totalmente diversa… o forse no.
A quelli che scambiano l’unificazione per una conquista sabauda, vorrei ricordare che prima i muli siciliani stavano comunque sotto a un altro giogo reale: quello dei Borbone, il cui re si era divertito per almeno quarant’anni con la vita dei sudditi, concedendo costituzioni che poi ritirava, alternando rivoluzione, repressione e rappresaglia. Avevano i loro lati positivi, questi re, senza dubbio. La prima linea ferroviaria nacque proprio a Napoli e chi è pendolare qui al sud, sono sicura, ogni giorno maledirà Trenitalia e le camicie rosse, immaginando Frecce Rosse con su lo stemma della corona. Ma bisogna ricordare che la Sicilia era un grande demanio privato, diviso in lotti tra gli aristocratici: il feudalesimo della nostra isola non era una leggenda. Viene ricordato spesso l’episodio di Bronte, come esempio della “cruenta conquista del Piemonte” nei confronti del mare nostrum e della condotta malavitosa di Garibaldi e dei Mille: a parte che il nizzardo non era neppure presente in quel frangente, ma non viene per nulla rammentata la motivazione che aveva animato quella piccola rivoluzione e la conseguente repressione: la gente di Bronte, al grido di W l’Italia, aveva tagliato le teste di chi l’aveva oppressa fino al “galeotto” decreto antifeudale emanato dal governo garibaldino. «Quando si parlò della divisione delle terre comunali […] il popolo guardò a quelli che vergognosamente erano al potere»1.
Queste sono solo alcune argomentazioni che uso per sfatare il mito negativo dell’unità d’Italia, il quale non fa altro che continuare a dividere il Paese e a renderlo sempre più irresponsabile.
Ecco, è esattamente questo il nucleo del mio discorso. La questione responsabilità, o colpa, a essere più precisi. C’è chi ci marcia ancora sul motto “Roma ladrona”. Chi ci marcia e chi ci marcisce, rispettivamente il partito della Lega Nord e chi lo sostiene, o Autonomia Siciliana e i suoi elettori. Non è questione di governo centrale. La burocrazia è sicuramente un dispendio di tempo e denaro, ma il vero problema è, ancora una volta, il potere. Quella cosa che logora chi non ce l’ha (G.A.). La Sicilia è una regione a statuto speciale e mi pare davvero assurdo che proprio i siciliani si lamentino dell’unità. Ma non ci pensate che gli impianti MUOS sono dovuti a La Russa, che è siciliano? E che la sospensione dei lavori è stata revocata da Crocetta, che è un altro siciliano (il quale si è guadagnato un bel posto d’onore tra le righe del Washington Post)? Siete insomma così sicuri che cambiando la storia, la nostra terra avrebbe avuto sorte migliore di questa?
Ma vediamo cosa c’entra Sartre, che è rimasto un po’ di righe su ad aspettare la sua entrata in scena. Ciò che amo del suo pensiero e che ho ritrovato in Abattoir è proprio il concetto di responsabilità. Della seconda guerra mondiale, dice il filosofo, devono sentirsi responsabili non solo quelli che hanno partecipato attivamente alle carneficine e alla divulgazione della demagogia fascista, ma anche quelli che non hanno scritto una sola riga per impedire che la catastrofe avesse campo. Sono quelli che Dante nel Duecento chiamava ignavi, indegni persino di accedere all’inferno, incapaci di prendere posizione e di agire, vili o indifferenti. L’Italia che c’è oggi non è nata da Garibaldi, dai Mille, da Mazzini, da Cavour. Lasciateli stare quei morti padri, animati da intenzioni e ideali che li hanno portati a rischiare la vita, a sporcarsi le mani, se necessario, a combattere in prima linea per amore di una nazione che era già “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor” (Manzoni), soggiogata da altri regni pronti a farsi battaglia tra loro, ma affratellati nella volontà di oppressione del popolo autoctono. Lasciateli stare e prendetevi le vostre responsabilità, perché i mali d’Italia scaturiscono da ignoranza, accidia, abitudine.
L’amore anima, l’apatia uccide.
Se pensate che sia difficile essere realmente informati sulle questioni, pensate un po’ quanto dovevano essere informati i nostri avi, quelli che hanno fatto Risorgimento e Resistenza.
Non vestite l’inazione di alibi. Il fantasma di Gramsci ci spinge a informarci e a prendere posizione. Sartre ci sollecita a manifestarla, la nostra posizione, per non essere complici dei misfatti, anche solo per avere la coscienza pulita.
Infine, vorrei precisare che non so se sia storicamente probabile che Garibaldi avesse imparato a parlare come i picciotti, ma su di lui ne hanno inventate tante… questa mi permetto di inventarla io.
1 M. Tenerelli Contessa, Difesa pronunciata d’innanzi alla Corte d’Assise del circolo di Catania per la causa degli eccidii avvenuti nell’agosto 1860 in Bronte, la Fenice di Musumeci, Catania, 1863.