Così, in certi pomeriggi, quando corro col fiato corto lungo il fiume, in una strada che non è una strada, ma è una lingua d’asfalto per biciclette, tossici e cani randagi, dove non arrivano i rumori del traffico, e le fronde degli alberi si muovono mosse dal vento, quando corro su questa non-strada, mi vengono mille pensieri, e qualcuno tra questi mille pensieri è un pensiero che ha a che fare con la morte, un pensiero che ha a che fare con la possibilità che mentre corro col fiato corto lungo il fiume, in questa non-strada, il cuore si fermi qualche passo prima delle gambe, e allora tra i mille pensieri cerco di cavarne uno, quello che nella mia elaborazione della morte dev’essere l’ultimo pensiero, l’ultimo prima di morire, e l’ultimo pensiero prima di morire, credo, debba essere il ricordo di qualcosa, ovvero il ricordo più bello di qualcosa, così, in questi pomeriggi in cui corro e penso alla morte, mi viene in mente che l’ultimo pensiero prima di morire, il ricordo più bello che la mia vita sarà riuscita a produrre, sarà l’immagine di mio figlio che mi dorme accanto, sul letto, in un pomeriggio qualsiasi, in una sottoluce calda e tetra, col suono del suo respiro che si sostituisce al silenzio, e tutto questo mondo, un poco oscuro e turbolento, tutta la bufera, appena oltre il muro.