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Per quanto il suo valore sia inestimabile sia sotto l’aspetto storico che sotto quello filosofico-politico, “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa indubbiamente è un romanzo anti-risorgimentale. Al pari delle pagine di De Roberto (“I Vicerè), di Verga (“I Malavoglia”), di Pirandello e di Sciascia, le pagine di Tomasi di Lampedusa contestano inesorabilmente il Risorgimento Italiano. Lo contestano dal punto di vista siciliano, visto quel che è accaduto dal momento dello sbarco dei garibaldini in Sicilia nel 1860. Fra i tanti, due sono i capitoli significativi di questa contestazione: il primo è quello che riguarda il giorno del plebiscito quando durante lo spoglio delle schede elettorali si registra l’unanime adesione degli elettori al Regno d’Italia in modo plebiscitario senza nemmeno un “no”. Immediatamente don Fabrizio Salina ha sentore dei brogli e delle sopraffazioni commesse che non sono di buono auspicio per l’avvenire della Nazione. Il giudizio sferzante sulla buona fede tradita che dà Tomasi è incontrovertibile: “Don Fabrizio non poteva saperlo allora, ma una parte della neghittosità, dell’acquiescenza per la quale durante i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno, ebbe la propria origine nello stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questi si fosse mai presentata”. E difatti dopo la caduta del governo borbonico nonostante la “rivoluzione” delle camicie rosse, i nobili conservano i propri privilegi e addirittura a don Fabrizio viene offerto un seggio senatoriale degnamente rifiutato dallo stesso. E qui si innesta il carattere atavico degli italiani che ancora oggi è presente nella nostra classe politica. E le parole di Tomasi risuonano di ampia attualità dove il nuovo è rappresentato dall’avvento di una inedita classe politica, quella personificata dall’abietto don Calogero Sedara che sfrutta i moti liberali, la forza del denaro e la stessa avvenenza della figlia Angelica per arrampicarsi sugli scalini della notorietà e del potere, del successo politico e mondano (non vi sembra verosimile al nano che oggi spadroneggia nel nostro paese???). L’altro capitolo fondamentale della denuncia anti risorgimento è quello del ballo in cui il colonnello Pallavicino racconta come abbia dovuto a malincuore far sparare, azzoppandolo a Garibaldi: per mettere freno al fanatismo dei suoi seguaci e salvare il compromesso sul quale è nato lo Stato unitario. L’amarezza per l’unità tradita, del colonnello è tutta in queste parole: “Mai siamo stati tanti disuniti come da quando siamo riuniti. Torino non vuole cessare di essere capitale, Milano trova la nostra amministrazione inferiore a quella austriaca, Firenze ha paura che le si portino via le opere d’arte, Napoli piange per le industrie che perde, e qui, in Sicilia, sta covando qualche grosso, irrazionale guaio…”. E obnubilato dal vino il colonnello paventa dopo la scomparsa della camicie rosse la comparsa di altre camicie, di altro colore.
Certo nel le sue considerazioni anti unitarie lo scrittore reazionario non ignora gli scritti di Gramsci, Gobetti, Salvemini tenendone conto ma l’immutabilità delle cose, della politica nostrana fanno propendere per il pessimismo accennato nei due riferimenti precedenti. Persino Sciascia che di Tomasi di Lampedusa non era un simpatizzante finirà nel tempo per apprezzare la “lucida profezia” facendo suo, per la nostra politica, l’aggettivo “irredimibile” proposto proprio dal Gattopardo.
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