Il caso più clamoroso è quello di Alessandra Moretti. Vicesindaco di Vicenza e personaggio del tutto sconosciuto al di fuori dei confini cittadini, alla fine dell’anno scorso ebbe a ritrovarsi dall’oggi al domani sotto i riflettori della ribalta nazionale. Merito di Bersani che, dovendosi dotare di uno staff per la sfida delle primarie contro Matteo Renzi, pescò la Moretti insieme a Roberto Speranza (futuro capogruppo alla Camera) e Tommaso Giuntella.
E la Moretti ripagò la fiducia del leader con zelo oltremodo vistoso. Presenza fissa nei talk show a difendere la trincea bersaniana dall’assalto rottamatore, pronta a replicare a brutto muso a quanti - lo stesso Renzi in testa - osassero prendersela col Capo, tetragona dopo il voto (e dopo la sua elezione alla Camera in quota Bersani) nel difendere alla morte la linea del governo del cambiamento.
E invece alla morte un bel niente. Perché nel momento del bisogno, quello vero, la prima schiena voltata che Bersani ha dovuto vedere è stata proprio quella della sua creatura. La quale, intuita la malaparata dell’opzione Marini, ha platealmente scaricato il proprio segretario nonché mentore votando - e facendo sapere di avere votato - scheda bianca. Meschinetta la motivazione addotta, col richiamo alla «voce del Paese reale» (tradotto: i selvaggi urlanti alle porte di Montecitorio) che contribuisce a dare un’ulteriore mano di bianco al sepolcro.
Tallona la Moretti, nella hit parade dei traditori, Nichi Vendola. Il quale deve a Bersani l’ingresso in Parlamento (fuori dalla coalizione, col misero 3,2% raccolto alle elezioni sarebbe rimasto a casa) e soprattutto il clamoroso incasso della presidenza della Camera con Laura Boldrini, eletta dal Pd per ordine del segretario. Nonostante questo, il governatore della Puglia è stato il primo a pugnalare Bersani, non aspettando nemmeno l’inizio delle votazioni di ieri mattina per impegnare il proprio gruppo parlamentare nella battaglia per eleggere il compagno-cittadino Rodotà.
Meritatissima medaglia di bronzo per Riccardo Nencini. Il leader di quello che resta oggi del già glorioso Psi più di tutti deve a Bersani l’entrata a Montecitorio: alle scorse elezioni, infatti, il suo simbolo non fu nemmeno presentato, essendosi direttamente reso necessario l’imbarco forzoso di Nencini e di pochi e selezionati fortunati nelle liste del Partito democratico. Restituire il favore? Neanche per sogno. Nencini, impegnato da giorni a tirare la volata ad Emma Bonino, a convergere su Marini non ha pensato nemmeno per un minuto. Anzi, a primo scrutinio appena concluso e a dramma umano e politico di Bersani appena innescatosi, il leader del Psi inondava le agenzie con entusiastici comunicati circa la «soddisfazione» per il risultato della leader radicale e culminanti nella promessa di sostenerla alla seconda votazione indipendentemente da tutto.
E chissà se, a vedere questa gente, a Bersani saranno tornati in mente i tempi dell’anno scorso, quando gli ex fedelissimi che voltavano le spalle al leader erano i berlusconiani e il Cavaliere si lamentava della loro «ingratitudine». Chissà se gli saranno tornati in mente, quei tempi, e chissà se gli saranno tornate in mente le risate che si erano fatti gustandosi i guai di Berlusconi, uno così indietro da continuare ad essere convinto che in politica la gratitudine contasse ancora uno straccio di qualcosa.
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