Venti minuti prima correva intorno al lago. Veloce, flessuoso, passo da atleta, testa dritta, incurante del caldo afoso di fine agosto. Adesso che sto rinchiuso in macchina pronto a ripartire, e che mi asciugo il sudore sulla fronte, lo vedo passare sotto l’ombra delle pensiline. È lo stesso ragazzo di prima, ma adesso piange. Passa una macchina, e una moto. I cani continuano a inseguirsi intorno al lago, c’è qualcuno ancora stravaccato sull’erba che si prende gli ultimi raggi di sole della domenica. Il ragazzo piange, con le mani che passano continuamente dal viso ai capelli biondi. Sulle prime sembrava un rantolo, un attacco d’asma. Ma adesso no, adesso è inequivocabilmente un pianto, un pianto dirotto, di quelli che tagliano le gambe. Le sue lacrime sono così disperate, così fuori misura, che sembrano l’incarnazione di tutti i lutti del mondo. Vorrei poter essere un altro e scendere dalla macchina, posargli una mano sulla spalla e invitarlo a sciacquarsi il viso sotto lo scroscio della fontanella, magari avere anche due parole di circostanza, insomma, fargli coraggio in qualche modo. E invece me ne sto inebetito con l’asciugamano sulle gambe e il silenzio fisso e duro del tramonto nelle orecchie. Lui si infila nella macchina. Lo sento ancora, adesso geme disperato, singhiozza come un neonato, i pugni in faccia, gli occhi serrati. Non posso ascoltarlo ancora. Non più. Metto in moto e vado. Lui rimane lì, con le ossa negli abissi più profondi.
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