di Paolo Virzì
Se “La prima cosa bella” era stato un tuffo nel passato con “Tutti i santi giorni” Virzi ritorna all’attualità, ma questa volta a differenza di altre lo fa interiorizzando quella cornice umana, ambientale e darwiniana che solitamente rappresenta il fiore all’occhiello di un cinema sempre attento a segnalare le contraddizioni del proprio tempo, proponendola nell’essenza stessa dei due protagonisti. Intendiamoci non si sta parlando di un cinema astratto oppure svincolato dal proprio tempo perché uno sguardo sul mondo esiste ed è evidente quando Guido ed Antonia si aprono a quello che li circonda, abbandonando temporaneamente l’idillio di un rapporto solipsistico ed autosufficiente. In questo modo il film soddisfa la propria funzione sociale ed antropologica costruendo una galleria di nuovi mostri coatta e periferica, riprodotta attraverso il dettaglio fisiognomico e di costume - i volti dei vicini di casa alterati dalla chirurgia plastica ed il loro modo di fare, ispirato a canoni televisi e da rotocalco - ma il puzzle di varia umanità sembra più un pretesto per rimarcare la diversità dei due protagonisti che il tentativo di costruire un quadro generale.
E' come se il regista ed i suoi collaboratori (Bruni alla sceneggiatura ma anche l’autore del libro a cui il film è ispirato) avessero deciso di rappresentare il proprio tempo attraverso un’ eccezionalità, quella di Guido ed Antonia, che dovrebbe essere naturale e condivisa e che invece, nel suo non incompresa ed anzi scansata – indicative a questo proposito sono le reazioni di disappunto delle persone che scambiano il disagio di Antonia per maleducazione o la bontà di Guido per debolezza – riesce a darci le coordinate esatte di chi siamo diventati.
Un progetto che Virzì sostiene con una scelta atipica come quella di presentarci una coppia già rodata, rinunciando alla poetica del primo incontro, in cui solitamente parole ed immagini si guadagnano l'empatia del pubblico mostrando le schermaglie dell'innamoramento. Lontano da queste trappole grazie ad un talento che ogni volta permette allo spettatore di dare del tu ai personaggi, Virzì si dedica alla costruzione di un romanzo popolare in cui il gusto per la vita si interseca con la capacità di saperla mediare attraverso il dinamismo narrativo. Il risultato è accattivante per la freschezza degli attori, naturali e fotogenici, e per uno stile di regia che esalta l’improvvisazione, i gesti minimali, gli scarti del cuore alla maniera di certo cinema targato Sundance, di cui "Tutti i santi giorni" sembra ricalcare anche il look, informale e cromaticamente slavato.