Agli inizi del Novecento, durante un viaggio compiuto nell’Europa liberale e liberista, Tuavii, capo tribù delle isole Samoa, ebbe modo entrare in contatto con l’Occidente “civilizzato”, con usi e costumi, vizi (tanti) e virtù (poche o nulle) dell’altra parte di mondo.
“Papalagi” è il risultato di questo viaggio. Un discorso, lungo articolato, mai tenuto in Europa. In effetti più nato per catechizzare la propria popolazione che per finire nelle librerie della media borghesia occidentale.
Uno sguardo non da studioso, né da esperto, svuotato dei contenuti volutamente tronfi dell’intellettualismo etnocentrista. Non un antropologo, Tuavii. I “Papalagi”, gli Europei appunto, sono per lui una curiosità ed una caterva di incomprensioni. Meglio di qualsiasi monografia, più impietoso di pampleth politici, lo sguardo del campo samoano sul mondo occidentale è calibrato alla perfezione.
Il suo occhio è una lente d’ingrandimento impietosa. Che non nasconde astigmaticamente i limiti empirici dell’organizzazione sociale: convenzioni in aperto contrasto l’una con l’altra, atteggiamenti che cozzano con i pensieri, gap incolmabile fra teoria e prassi. Anzi, li accentua a tinte brillanti. Con parole pacate ma crudelmente chirurgiche, attraverso esemplificazioni che si susseguono in maniera ripetuta.
Dio da un lato, il danaro dall’altra. Morale sottomessa alla moneta. Dio e Mammona con la netta prevalenza del secondo sul primo e l’assuefazione conseguente dell’uno sull’altro. Già, perché Tuavii vomita giudizi senza scampo e senza appello. Sorpreso del fatto che chi “è ricco” venga invidiato: “Gli fanno complimenti, gli dicono cose altisonanti. Perché l’importanza di un uomo nel mondo dei Bianchi non è data dalla sua nobiltà o dal suo coraggio o dalla brillantezza della sua mente, ma dalla quantità del suo denaro, da quanto ne può fare ogni giorno, da quanto ne tiene rinchiuso nella sua pesante cassa di ferro che nessun terremoto può distruggere”.
Il capo samoano non comprende questo modus cogitandi. Lo rigetta. Lo sconvolge. Parla di “impoverimento del Papalagi” morale ed economico, dello sconvolgimento che ne deriva, degli scossoni che la perdita di denaro comportano nella vita dell’Uomo Bianco, della distruzione “delle cose del Grande Spirito” per il mero interesse di accumulazione. È per questo che, di fronte al lusso apparente, Tuavii, all’opposto dell’uomo moderno, ripudia la falsa ricchezza. L’aleatorietà del possesso aureo. “Gli uomini bianchi ci vogliono portare i loro tesori in modo che diventiamo ricchi anche noi. Ma queste cose non sono altre che frecce avvelenate, che causano la morte di chi colpiscono in petto”.
Tuavii ha in dote una radicalità spirituale incorruttibile, che barrica dietro una corazza infrangibile. È questa radicalità che ha toccato un altro grande radicale come Fabrizio De Andrè, più che affascinato, innamorato del libello edito da Stampa Alternativa.
Nulla viene risparmiato alla furia emozionale del capo tribù. Tutta l’arte europea (cinema e informazione comprese) è derubricata alla voce “finta vita”. L’impettimento della ragione illuministicamente intesa come una forma di stoltezza, il lavoro come una serie di azioni confuse ed alienanti. E tutto il suo mondo è “oscuramento”. Senza amore.
“Papalagi. Discorso del capo Tuavii di Tiavea delle isole Samoa”, Stampa Alternativa 2002
Giudizio: 5 / 5 – Più che attuale. Vero. Purtroppo.