di Gaetano Vallini«Ho ricevuto disposizioni dalla Segreteria di Stato. Mi si chiede di offrire assistenza e aiuto ai perseguitati, in particolare agli ebrei. È questo il volere di Papa Pio XII», disse il vescovo a don Brunacci
«Noi ebrei rifugiati in Assisi non ci dimenticheremo mai di ciò che è stato fatto per la nostra salvezza. Perché in una persecuzione che annientò sei milioni di ebrei, ad Assisi nessuno di noi è stato toccato». Sono le parole con le quali Emilio Viterbi testimoniò anni dopo, a nome di tutti i salvati, la riconoscenza verso quanti si erano adoperati in loro favore a rischio della vita.Tra questi c’era Don Aldo Brunacci, che non dimenticò mai quando monsignor Giuseppe Placido Nicolini, vescovo di Assisi, gli chiese di collaborare a un’operazione tanto nobile quanto rischiosa: salvare gli ebrei dalla follia nazifascista. Così, parlando con i giornalisti o con i giovani, partiva quasi sempre da lì. Lo fece anche nell’ultima intervista, pochi giorni prima della morte, avvenuta il 2 febbraio 2007: «Era un giovedì di fine settembre 1943. Il vescovo mi chiamò in disparte. “Ho ricevuto disposizioni dalla Segreteria di Stato — mi disse — mi si chiede di offrire assistenza e aiuto ai perseguitati, in particolare agli ebrei. È questo il volere di Papa Pio XII. Mi raccomando la massima cautela. Nessuno, neppure tra i sacerdoti, deve sapere nulla”».
Don Aldo Brunacci
Don Aldo, che aveva 29 anni ed era canonico della cattedrale di San Rufino, non ebbe la benché minima esitazione, dando il via a una storia di solidarietà e coraggio che vide impegnate molte persone e che salvò la vita di oltre 300 ebrei altrimenti destinati alla deportazione e probabilmente alla morte. Per quell’opera umanitaria sia monsignor Nicolini sia don Brunacci vennero insigniti da Israele del titolo di Giusti tra le Nazioni nel 1977.Dopo l’8 settembre del 1943 ad Assisi iniziarono ad arrivare moltissimi profughi: se ne contarono fino a seimila. Per far fronte a questa emergenza in Vescovado venne attivato un comitato di assistenza. Ma ben presto quest’opera non fu sufficiente, soprattutto quando si comprese che oltre ad assistere bisognava nascondere gli ebrei, diventati di colpo la preda principale delle azioni criminali degli occupanti e dei miliziani fascisti. Fu così che accanto al comitato iniziò ad operare, segretamente, un’organizzazione parallela con lo scopo di offrire protezione agli ebrei mischiatisi tra gli sfollati. La scelta di don Aldo, da parte del vescovo, fu tutt’altro che casuale. Monsignor Nicolini sapeva che il giovane sacerdote — vicino alle posizioni dell’Azione Cattolica — non era ben visto dal regime, per il quale era un prete scomodo. Tanto che alla messa delle 12 da lui officiata presenziavano agenti della polizia segreta fascista, con il compito di ascoltare le sue prediche, per coglierne i tratti sovversivi. Ma se don Brunacci era il braccio, monsignor Nicolini — sessantacinquenne trentino che prima di diventare vescovo era monaco benedettino — era la mente, il vero protagonista dell’opera di salvezza. Si assunse in prima persona la responsabilità di aprire agli ebrei le porte dei conventi, dei monasteri e persino delle clausure. Il centro operativo di quell’organizzazione segreta fu stabilito nel convento delle clarisse di San Quirico. Qui, come nelle foresterie delle collettine, delle stimmatine, delle benedettine di Sant’Apollinare e delle suore cappuccine tedesche, vennero nascosti i perseguitati fino a quando si riusciva a procurare loro nuovi documenti d’identità. Con quelli alcuni potevano lasciare la clandestinità e vivere in albergo o in appartamenti privati.Nei primi tempi il problema più urgente era costituito proprio dai documenti, per i quali solitamente si usavano nomi di persone residenti in zone dell’Italia meridionale già liberate, dove era più difficile effettuare controlli. Per risolverlo il vescovo si affidò a padre Rufino Niccacci, guardiano del convento di San Damiano, al quale chiese di avvicinare un tipografo dichiaratamente comunista, Luigi Brizi. L’uomo offrì la sua disponibilità malgrado i rischi e, senza esitare, coinvolse anche il figlio Trento.
Anche loro, come padre Niccacci, sono stati insigniti del titolo di Giusti delle Nazioni. Così come, pochi giorni fa, il grande ciclista Gino Bartali «che — racconta il figlio Andrea — prendeva i documenti preparati dai Brizi e, nascondendoli nel telaio della bicicletta, li portava fino a Firenze per gli ebrei nascosti in città: 130 chilometri per andare e altrettanti per tornare, tutti in un giorno». Una testimonianza, questa, dei contatti tra monsignor Nicolini e il cardinale Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, che aveva allestito un’analoga rete di soccorso nel capoluogo toscano.Ad Assisi il vescovo era un punto di riferimento. Sempre disponibile e sereno, come emerge dal racconto di Mirjam Viterbi Ben Horin, all’epoca una bambina che, con i genitori e la sorella, venne nascosta e si salvò grazie a Nicolini: «Ricordo la grande semplicità e la purezza del suo sguardo, quel qualcosa di immediatamente buono e ingenuo che sembrava sprigionarsi, assieme a una grande forza, da ogni suo gesto, da ogni parola. Nell’ombra e nel silenzio delle grandi stanze, la figura del vescovo era rassicurante, come qualcosa a cui ci si poteva appoggiare». Un ricordo vivido ancora oggi. «La mamma e il papà gli spiegarono chi eravamo — continua Mirjam — e gli consegnarono quei pochi oggetti ebraici che ci avevano seguito da Padova e che, se scoperti, avrebbero potuto denunciare la nostra identità. Monsignor Nicolini li prese con attenzione e delicatezza, assicurando che li avrebbe messi personalmente “in un luogo sicuro”. E così fece, come del resto faceva tutte le volte che era necessario nascondere oggetti “pericolosi”: libri sacri, ricordi di famiglia, oggetti liturgici cari agli ebrei ospitati in edifici religiosi. Con l’aiuto di don Brunacci si recava nei sotterranei del palazzo vescovile per occultarli». Ricordava don Aldo: «Monsignor Nicolini murava personalmente mentre io tenevo la candela. Quando c’era da picconare, ero io a lavorare». La segretezza era essenziale e gli ebrei dovevano essere sempre pronti a spostarsi per cambiare rifugio in caso di pericolo. Talvolta l’unica salvezza era costituita dalla clausura. Lo sanno bene i membri della famiglia Finzi, madre, padre e figlia di tre anni. Erano arrivati dal Belgio e si trovavano ad Assisi già prima dell’8 settembre: per questo erano regolarmente registrati dalla polizia con i loro veri nomi. Dopo l’8 settembre tedeschi cominciarono a cercarli e il vescovo autorizzò l’intera famiglia a entrare nella clausura, presso le clarisse collettine francesi.Quando le cose sembrarono precipitare, con l’intensificarsi dei controlli, e divenne necessario avere la disponibilità di altri rifugi, monsignor Nicolini non esitò a offrire la sua stessa stanza. Come ricorda ancora Mirjam: «Mio padre andò a consigliarsi col vescovo e a chiedergli se in caso di estrema necessità avesse potuto accoglierci in vescovado, già asilo di un incredibile numero di sfollati e di perseguitati. Monsignor Nicolini sorrise, con quella sua espressione buona: “Sono rimaste libere solo la mia stanza da letto e lo studio — disse con spontaneità — ma posso benissimo sistemarmi nello studio e la stanza da letto è per voi”. Papà, di fronte a quell’offerta tanto generosa, non si sentì ovviamente di accettare». In quei mesi difficili accadde anche qualcosa in più. Nella quiete dei conventi di Assisi gli ebrei furono liberi di riunirsi in preghiera, senza che nessuno potesse turbare il loro sentimento religioso. Ricordò in seguito don Brunacci: «Si percepiva chiaramente come non esistevano rifugiati, ma soltanto fratelli e che tutti eravamo accomunati da un’implorazione: che finisse presto la tragedia». Ma prima della fine, il pomeriggio del 15 maggio 1944 don Aldo venne arrestato sotto la sua abitazione di via san Francesco. Con la scusa di salire in casa a prendere il breviario, fece in tempo a salvare una famiglia ebrea che lo stava aspettando in attesa di una sistemazione. Processato a Perugia, venne spedito nella scuola trasformata in campo di raccolta delle persone arrestate. In suo favore intervenne il vescovo della città, monsignor Mario Vianello, che fece un patto con il prefetto: il sacerdote sarebbe stato liberato a patto che si trasferisse in un altro Stato. Ovviamente andò in Vaticano, dove collaborò con il sostituto Giovanni Battista Montini. Pur non potendo assistere, il 17 giugno, all’ingresso degli Alleati ad Assisi, don Aldo sapeva che tutto era filato liscio: nella città di Francesco gli ebrei si salvarono tutti.(©L'Osservatore Romano – 5 ottobre 2013)