Ecco l'ultima storica immagine del capolavoro filmico Tempi Moderni. Il piccolo grandissimo Chaplin con la sua Paulette Goddard a braccetto se ne vanno camminando per una lunga strada senza fine. Dopo tutte le loro avventure tragicamente esilaranti, la pellicola finisce e sembra cominciare la loro vera vita a due, ma siamo ormai fuori dallo schermo, allo spettatore ne è negata la visione, può solo lavorar di fantasia. "Le bonheur n'a pas d'histoire" diceva Balzac. Ma come, la felicità non ha storia? Ce l'ha eccome una storia, ma è una storia privata, personale, fatta di piccole magie al quotidiano vissute segretamente nell'intimità, non ci puoi costruire sopra un romanzo, tenere il cuore del lettore in sospeso, manca il ritmo e l'incalzare dell'azione, quello spessore drammatico che può far vibrare. Il dolore sarebbe dunque sfruttabile, manipolabile, suscettibile di interesse su larga scala, la felicità solo una vicenda silenziosa e solitaria, da relegare nel top secret personale, credo intendesse dire lo scrittore e aveva ragione, nel nostro mondo la comunicazione è organizzata intorno al dolore, alle disgrazie, alle violenze, alle tragedie, "fanno notizia" "catturano l'attenzione". Il dovere d'informazione lo esige, ma tra i fatti del giorno, non c'è la sola cronaca nera, succedono anche cose splendide, ci sono in circolazione anche tanti piccoli eroi del quotidiano, testimonianze di generosità, fedeltà e abnegazione, peccato che la cronaca rosa e celeste e verde a pallini non facciano audience. Capita che le proposte dei media, film, spettacoli, libri, favole finiscano col "e vissero felici e contenti", ma il seguito te lo devi immaginare da solo, perché lo schermo è vuoto, la pagina bianca e poi "l'happy end" delude molti, che finale scontato, che banalità, le storie del Mulino Bianco risultano stucchevoli! Aristotele era un acceso fautore del valore catartico della tragedia, ma non potremmo liberarci e purificarci dalle pulsioni nefaste attraverso l'immedesimazione col riso ed il bello? Funziona solo l'orrido? Se due mamme si incontrano al parco si scambiano le informazioni sulle ultime difficoltà, l'angina con 40 di febbre del pupo, la notte passata in bianco per i pianti, gli insuccessi scolastici più tardi, non ci si racconta la gioia sublime del primo sorriso, la tenerezza del bacio della buonanotte, la soddisfazione di vedere il pargolo diventare grande. Quelle, rimangono di solito gelosamente custodite. L'amica ti tiene ore intere al telefono per l'elenco minuzioso di ogni dettaglio delle infelicità del suo cuore, ma se per caso funziona, se ha trovato "quello giusto", bastano poche sintetiche parole, la sua gioia diventa molto più avara di particolari. Risulta insomma che condividere le disgrazie sia uno sport molto più praticato che far partecipi gli altri delle proprie gioie, eppure credo che ce ne sia qualcuna per tutti ogni tanto, parlarne e goderne in compagnia non guasterebbe (non alludo alle cerimonie, costano un patrimonio e non finiscono mai). Mi chiedo perché. Forse per pudore? Come ostentare una felicità se l'orecchio che ti ascolta è magari in difficoltà? Forse per scaramantica prudenza? Se la racconti il momento magico poi si squaglia. Per paura di suscitare invidia? Come per il fisico in palestra potremmo allenarci a godere del bene altrui, proficua ginnastica per il cuore, in fondo è un muscolo anche lui. Mi sembra tutto alla rovescia, le tragedie che diventano così pubbliche, i momenti belli che rimangono così privati. Tutto alla rovescia, film e libri potrebbero incominciare dove di solito finiscono e invece di transennare dallo sguardo morboso della gente i luoghi degli abissi più bui dell'animo umano, grandi curiosità collettive per le finestre assolate, gioie condivise per i successi. Riflessioni "buoniste"? Sicuramente si, ma è una modesta ribellione per non annegare nel guado.