Romanzo storico (ma, forse ancora di più, di storia romanzata), Tutto ciò che sono di Anna Funder rielabora i caratteri del giornalismo narrativo di inchiesta (che hanno reso famosa la sua autrice in Stasiland) sotto un profilo dichiaratamente di fiction, che tuttavia si pone come scopo la ricostruzione attendibile di un periodo storico cruciale per il mondo intero così come per la Germania. E – per quanto dal punto di vista strettamente letterario il romanzo dimostri qualche passo falso – un aggettivo campeggia su tutti gli altri nel giudizio: quello di “morale”. Siamo nel 1933: l’ascesa al potere di Hitler, la caduta di Weimar. Nel mezzo (o, ancora meglio, in termini fenogliani, “nel fitto” della storia) un gruppo di giovani attivisti politici, del Partito Socialdemocratico Indipendente, riesce a fuggire oltre-confine e – nei primi anni convulsi di consolidamento del regime – cerca affannosamente, con ogni mezzo, di allertare il mondo su quanto sta succedendo (in Germania) e dunque sta per succedere (anche altrove); trovandosi di fronte il muro di gomma di una comunità internazionale che, ripresasi faticosamente dai postumi della prima grande guerra, non vuole credere, con tutte le sue forze, a un nuovo periodo bellico e, proprio per questo, rifiuta per troppo tempo di assecondare prove e voci che porterebbero alla chiusura dei rapporti diplomatici con la Germania. Sono storie vere, quelle dei personaggi: Ruth Blatt e Hans Wesemann, Ernst Toller (scrittore e drammaturgo, che fu tra gli animatori della Repubblica dei Consigli del 1919, in Baviera), Berthold Jacob e l’appassionata Rosa Fabian. Dei quali la Funder ricostruisce con precisione origini e prodromi, e le ragioni (di militanza, di indipendenza, libera coscienza e spirito critico) che li portano a essere lucidamente vigili rispetto a quello che sta accadendo, sia all’interno dei confini di un paese da cui devono scappare, come rifugiati ed esuli, sia a loro stessi, fuori dalla Germania.
Come nella migliore tradizione anglosassone in questo senso (la Funder è australiana), la ricerca storiografica (e la sua riproposizione a un vasto pubblico in forma accurata, verificata, ma nello stesso tempo accattivante e digeribile) come dover essere, dunque. Secondo il sano principio della comprensione delle scelte dei singoli, che fanno gruppo, e della ricerca delle radici di un passato che non può essere rimosso per comprendere ciò che siamo da quel che siamo stati. Proprio per questo la cornice storica (indagata con minuzia, e della quale sono presentate in appendici le fonti) diventa anche occasione per portare in primo piano ritratti a tutto tondo (e pennellati, questi ultimi, anche e consapevolmente con la tavolozza dei colori romanzeschi). Ed è dove il libro, da storico, diventa anche esistenziale e filosofico, nella descrizione delle reazioni dei singoli di fronte a una condizione storica che li mette tutti, apparentemente, sullo stesso piano di pericolo e di disagio. Prevedibilmente i destini si fanno allora da collettivi individuali. E dipendono da caso, occasione, movente, scelta, indole, forza morale. In un caleidoscopio di situazioni (documentate storicamente) che la Funder riporta con puntiglio, senza nascondere la sua predilezione per quale tipo di lucido eroismo, ma nello stesso tempo senza dimenticare che non è mai facile – prima, durante, a posteriori, sempre – arrivare al giudizio, quando si va indagare il campo della resistenza delle persone di fronte a privazioni, frustrazioni, paura, male. Molto più chiaro (ma il piano passa di nuovo da esistenziale a storico) il giudizio sulle nazioni, i governi e le comunità internazionali. Proprio per questo vengono evocate le debolezze incerte del governo di Londra dei primi anni Trenta, o la grottesca vicenda della nave Saint. Louis, rispedita con superficiale indifferenza da tutto il nuovo mondo all’europeo mittente con il suo carico di profughi ebrei). Fino alla fine della vicenda dei protagonisti – che falliscono nel loro disperato tentativo di avvertire il mondo su che cosa sta accadendo – che coincide, inevitabilmente, con lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Un libro necessario, dunque, che ha il merito di portare l’attenzione su episodi noti solo in ambiti rigidamente storici. Proprio per questo la scelta compiutamente romanzesca appare in qualche modo inutile, e non solo perché condotta con evidente imperizia (la struttura narrativa, che intreccia un doppio piano di flashback e punti di vista, è gestita in modo inesperto, e un po’ goffo, e alla fin fine inutile). Come se la Funder non sapesse trovare un’alternativa al réportage interiorizzato sperimentato (in maniera vincente) in Stasiland. Ma, anche se il lettore resta con il dubbio (forse pure la certezza) che tutto questo poteva essere raccontato diversamente, sono difetti che si perdonano al contenuto del romanzo. Che (però) trova un suo posto, importante, nello scaffale dei libri di storia.
La ‘povna anche questa settimana partecipa (ovviamente) al Venerdì del libro di Homemademamma.