di Cristiano Abbadessa
Seguo con attenzione e interesse i commenti, di qualunque segno, alla nostra ridefinizione operativa, anche se finora ho limitato i miei interventi a un breve contrappunto di precisazione che mi sembrava necessario. Pensavo oggi di cominciare da lì, senza replicare o commentare punto per punto, ma cercando di trovare una chiave di lettura per rispondere principalmente a chi non ha condiviso alcune scelte. Poi, però, su Repubblica di ieri ho letto la rubrica di Loredana Lipperini e mi è sembrato lo spunto giusto da cui ripartire; per arrivare, in fondo, a esprimere gli stessi concetti elaborati attraverso la lettura dei vostri commenti.
La rubrica della Lipperini ci racconta un caso di successo di autopubblicazione; la storia la potete leggere da soli, e non vi sfuggirà che, attorno alla cruda cronaca del fatto, vi è a premessa lo slogan “il self-publishing ci salverà” e a conclusione la frase “come si vede, la ribalta è presto ottenuta”. Apertura e chiusura che sembrano messe apposta per vellicare facili entusiasmi. Eppure, dalla lettura del breve brano si può evincere che questa storia di successo ha alcune caratteristiche peculiari e non ripetibili: si svolge negli Usa, dove il mercato delle vendite online e degli e-book ha uno sviluppo neppure comparabile a quello italiano (e la vendita su internet è condizione indispensabile per un self-publisher, il quale non può sostenere la gestione amministrativa e operativa dei rapporti con singole librerie); l’autrice lavora come editor in una rivista, quindi si suppone che, grazie al ruolo e al potere, abbia sottomano dei redattori (magari subalterni) da utilizzare per la lucidatura di un’opera grezza, a poca o nulla spesa; l’autrice aveva già scritto sei romanzi (o sette: questo non si capisce bene), uno dei quali di enorme successo, ed era perciò già più che nota al grande pubblico e fornita di un nutrito gruppo di estimatori; grazie al suo ruolo e alla sua notorietà, la notizia che Brittany Geragotelis (l’autrice) si autopubblicava ha avuto subito enorme risonanza sulla stampa, non solo americana, e i lettori ne sono stati automaticamente resi partecipi; alla Geragotelis, grazie al lavoro e alla fama, non mancano neppure i soldi, tanto da poter lanciare la sua opera autopubblicata attraverso un party a Manhattan. Come si vede, condizioni che non sono precisamente comuni a tutti i mortali desiderosi di pubblicare un’opera. Eppure, si spende la storia per contribuire a seminare l’illusione che il successo (in autopubblicazione o no, in fondo, poco importa) sia a portata di mano e dietro l’angolo, a patto di avere un pizzico di coraggio e un po’ di inventiva.
Trovo che il messaggio veicolato si riallacci perfettamente alla frase che più mi aveva colpito, tra quelle di chi esprimeva contrarietà rispetto alle nostre scelte. Una frase di Francesco alias Mac Tardinoh Frank, il quale, al netto dei toni e di varie inesattezze, ci dice: “Se lei ha scelto il mestiere dell’editore deve fare le cose con umiltà ed aspettare il colpo di fortuna, da parte di uno scrittore esordiente, di un romanzo buono che le faccia fare tanti soldi!”. In apparenza, una frase che molti potrebbero liquidare aggrappandosi all’ossimoro concettuale tra l’umile e serio esercizio di un mestiere e l’attesa del colpo di fortuna come unica forma possibile di retribuzione del lavoro. Eppure, credo che, se si ha l’onestà di grattare oltre la crosta, questa frase ci racconta una grande verità: sull’Italia di oggi e, di conseguenza, anche sul mondo editoriale.
Suppongo sia cominciato tutto nel corso degli anni Ottanta, quando il mondo stava preparando cambiamenti epocali, i rapporti di forza politici ed economici stavano ridisegnandosi nel segno dell’imminente globalizzazione, e noi, anziché affrontare seriamente la sfida dei nuovi diritti e delle nuove opportunità in una società in profonda trasformazione ci andavamo aggrappando all’effimero godimento e al gioco in Borsa. Deve essere partito da lì quel modo di essere tutto neoitaliano per cui il successo va ottenuto in fretta, senza fatica e senza applicazione, attraverso l’eterna raccomandazione (che perpetua i rapporti di potere) o l’insperata botta di culo (che non modifica i valori e i meriti). Cosa significhi, lo abbiamo visto in ogni campo: in una politica dove si sono evocati uomini forti, unti del signore, tecnocrati salvaItalia cui affidarsi senza riserve per risolvere in un amen i guasti generati in decenni, affascinati ora dal nuovismo ora dalla protesta becera e demagogica, ma sempre senza una visione d’insieme e un’analisi di fase; nel regalare sontuosi quarti d’ora di celebrità a fenomeni mediatici privi di spessore (nelle arti, nel cinema, ovviamente in tv); nell’aggrapparsi al nome famoso da spendere per mascherare l’inesistenza di un progetto (nella cultura, nello sport); nell’adattarsi a percorrere qualsiasi scorciatoia e nell’affidare il proprio futuro all’azzardo (nella vita quotidiana). Penso che ciascuno, secondo inclinazioni e competenze, possa trovare gli esempi calzanti. E, fra l’altro, agendo in questo modo abbiamo conservato il potere reale nelle mani di una gerontocrazia che giganteggia, se non altro, sull’orgogliosa ignoranza di generazioni cresciute nell’adorazione dell’effimero e dell’apparente; per cui si assiste al continuo alternarsi tra i miti del momento, capaci di cavalcare l’onda del consenso popolare, e il riemergere degli eterni fossili riportati alla luce dal fluire della risacca.
L’ho fatta lunga, e poco mi resta per dire come questa frettolosa attesa del successo e della “svolta” vengano a declinarsi nel mondo dell’editoria e quali riflessi abbiano sul lavoro di un piccolo editore. Va bene così, e mi limiterò ad accennare qualche aspetto, che andrà debitamente ripreso con più calma nelle prossime settimane.
Ma non posso fare a meno di accennare, per esempio, ai troppi autori che si deprimono se nel giro di un paio di mesi il loro romanzo non è sbocciato alla fama, vittime del luogo comune che “un libro ha due-tre mesi di vita”. Una sciocchezza assoluta, che riguarda semmai solo quelle opere minori stampate da grandi e medio-grandi editori per la sola funzione di merce di scambio con distributori e librai, messe nel circuito editoriale solo per sostituire la penultima produzione con l’ultima senza che nessuno debba sborsare denaro reale. Ma si tratta, appunto, di una realtà che non riguarda certo l’autore che ha pubblicato con un piccolo editore, che deve avere invece la pazienza e la perseveranza di veder crescere nel tempo la propria creazione.
Così come non posso ricordare che nessun piccolo editore arriva a pioggia coi suoi titoli nelle grandi librerie delle catene, se non dopo una lunga anticamera. L’alternativa, fatto salvo il solito caso della amichevole spinta di qualche personaggio importante (e non è il nostro caso), è quello spesso evocato investimento in marketing, del quale sarebbe bene però, una volta per tutte, definire i costi: perché un investimento pubblicitatio vero, di quelli che muovono l’attenzione dei lettori e dei librai, si misura nelle decine di migliaia di euro. Altrimenti bisogna ancora avere la pazienza di costruire un flusso comunicativo che scava la roccia con la lentezza della goccia insistente, senza sognare scorciatoie facili e successi improvvisi.
Che poi, fra l’altro, provate ad andare da un distributore importante o da un operatore della promozione editoriale e chiedetegli cosa pensa del “colpo di fortuna di un romanzo buono” pubblicato da un piccolo editore. Vi diranno che, nel novanta per cento dei casi, se un piccolo editore vende in media cinquecento copie a titolo e ne sforna uno da ventimila copie, quel successo è destinato a generare una spirale che porta al fallimento nel giro di un anno. Altro che colpo di fortuna!