Non mi piace commentare fatti di cronaca “a caldo”. Preferisco prendermi del tempo perché certe reazioni di pancia lascino il posto a riflessioni di testa.
Così mi ritrovo a pensare al titolo “Ragazzo gay suicida”. Non credo che ci si suicidi perché “gay”. O perché “con i brufoli”, “con chili di troppo”, “bravi a scuola” o “immigrati”. Secondo me, ma la mia è una presunzione, si fa perché “ci si sente diversi” e questo avviene perché “gli altri ci fanno sentire diversi”. Perché qualcuno ti chiama “brutto”, “ciccione”, “secchione” o “negro”.
L’adolescenza è un periodo molto delicato. Non si ha idea delle giuste proporzioni. Alcuni problemi sembrano montagne enormi non superabili. Alcune ferite danno un dolore che appare insopportabile. Credo che il dolore sia un’esperienza privata. Che non lo si possa capire fino in fondo e neanche, purtroppo, eliminare. Anche se lo vorremmo. Neanche per le persone, come i nostri figli, che amiamo tanto.
Chi riesce un po’ a immaginarlo, per sensibilità propria o per esperienze passate, può testimoniare che domani quel dolore sembrerà più lieve. Che vale la pena non fermarsi all’oggi. Che si riuscirà a sentirlo con occhi e cuore diversi. Chi può, dovrà mettersi alla fine del ponte con la mano tesa, perché non potrà ripercorrerlo di nuovo per fare da accompagnatore, incoraggiando ad andare avanti passo dopo passo.