Con la stessa disinvoltura e naturalezza grazie alle quali ha conquistato negli anni un pubblico sempre entusiasta e partecipe delle sue pirotecniche evoluzioni da one man show, che lo hanno consegnato definitivamente alla ribalta dei nostri attori più poliedrici e geniali, Gigi Proietti affida ora alla pagina scritta (Tutto sommato- Qualcosa mi ricordo, Rizzoli Editore) un bilancio esistenziale affabulante e piacevole, un fluire alternato fra ricordi di vita e carriera, “quattro chiacchiere sul passato (sperando che a qualcuno interessi)”, più che un’autobiografia vera e propria, come lo stesso attore ci tiene a precisare. I tanti gustosi aneddoti, le puntuali annotazioni di costume presenti nel corso della narrazione, evidenziano l’identico carismatico coinvolgimento espresso sul palco, la narrazione di una storia per il puro piacere di raccontare, rendendo complici i lettori nell’indirizzarli verso un percorso comune a molti, “senza nostalgia, ma con l’amore per un passato che la natura scrive come vuole, come un sogno voluto e gestito, mai subito”. Ciò che emerge dalla narrazione è quindi un lucido “come eravamo” che assume valore di memoria storica e, dipanandosi a doppio filo lungo la narrazione, suscita interesse ed una certa emozione.
Dopo una serie di traslochi la famiglia Proietti, a guerra ormai finita, si trasferisce nel quartiere Tufello, con i costruendi casermoni a rappresentare la nuova edilizia delle case popolari: grazie alla vivida scrittura sembra di vedere Gigi ancora ragazzino correre insieme ai suoi coetanei fra le varie stradine, “bambini selvatici” impegnati ogni giorno ad inventarsi nuovi giochi, quando “per capire la differenza fra giusto e sbagliato dovevi fare ambedue le cose”. A toglierti dalla strada ci pensava l’oratorio, perché la Chiesa era ovunque ed ognuno doveva confrontarsi con le sue regole prima o poi, per cui fra una partita a ping- pong e l’altra finivi con l’imparare la messa in latino, spiega Proietti con la consueta sapida bonomia, grazie alla quale mette in risalto nel corso della narrazione del periodo della sua adolescenza, fra le emozioni provate attraverso le prime trasmissioni radio o la visione di Rita Hayworth in Salomè (William Dieterle, ’53) al Cinema Aurea, finalmente subentrato alla sala parrocchiale e alle sue pellicole censurate, un senso della collettività forse inconsapevole, ma sempre ben presente e costante, seguendo regole magari non scritte ma valide a regolare la vita civile di più persone. Interessante poi la descrizione dell’approccio al mondo artistico, praticamente sospinto dall’incontro di due variabili quasi sempre coordinate fra di loro, casualità e curiosità. Così, dal dimenticabile esordio come timpanista, il nostro passa alle lezioni di chitarra, anche se l’apprendimento principe era costituito dal copiare tecniche ed accordi di qualche amico, per lo più canzoni dei Platters o di Elvis Presley, per poi debuttare ai tempi del Primo Liceo al Gran Caffè dei Professionisti in Via Vittorio Colonna, una volta composto con gli amici il complesso dei Viscounts (piano, batteria e contrabbasso). Adattandosi a suonare di tutto, il gruppo man mano conobbe le realtà delle sale da ballo, dei night club, del tè danzante il sabato e la domenica, le varie soirèe, in particolare dopo l’incontro con sassofonista Lello Arzilli che ascoltò un nastro con incise alcune canzoni. E Gigi continuò su questa strada anche una volta iscrittosi alla Facoltà di Giurisprudenza, più per accontentare i genitori ed assicurarsi il rinvio militare che per vera vocazione, anche se, sempre spinto dalla suddetta curiosità, in tale ambito avvenne l’evento che avrebbe dato vita alla sua carriera, ovvero l’iscrizione al CUT, Centro Universitario Teatrale. Da qui in poi, con la presenza al fianco di Sagitta, sua attuale compagna, per Proietti, pur fra le tante difficoltà, il percorso da seguire divenne più evidente, anche se lui continuava a considerare il tutto, pur nel notevole impegno profuso, come un’avventura, un passatempo. Dal teatro sperimentale ad innovativi sceneggiati Rai (Don Chisciotte di Carlo Quartucci, ’70; Il circolo Pickwick di Ugo Gregoretti, ‘68), passando per la fondamentale esperienza del doppiaggio (la descrizione dell’incontro con Mario Cigoli è spassosissima), l’esperienza con la compagnia messa su insieme a Carmelo Bene ed una serie d’incursioni nel mondo del cinema, ora come semplice comparsa, ora come prosecuzione del discorso avanguardistico portato in teatro (L’urlo, ‘68 e Dropout, ’70, Tinto Brass), senza dimenticare il fondamentale debutto “popolare” in Alleluia brava gente di Garinei e Giovannini, nel ’70, per sostituire Domenico Modugno, si delineano i passaggi essenziali della sua carriera, che comprendono anche incontri, fra gli altri, con attori quali Vittorio Gassman.
L’artista è stato capace, con grande umiltà, di affrontare una profonda disamina della propria attività attoriale, arrivando all’autocritica.
In particolare risulta fondamentale al riguardo l’esperienza con A me gli occhi please, spettacolo andato in scena dal ’76 al ’78 nell’innovativa location del Teatro Tenda, riuscita dimostrazione di come fosse necessario un cambiamento di linguaggio nel teatro italiano. Veniva infatti effettuata una contaminazione di generi teatrali, nel passaggio da uno stile ad un altro, dal comico al tragico, senza soluzione di continuità, con un linguaggio nuovo composto da una miscellanea di modelli antichi (niente scenografia o costumi, la regia dipendeva dalla recitazione, in scena l’attore ed un baule da cui estrarre gli oggetti funzionali al pezzo recitato). Qui nasceva il Proietti “definitivo”, consapevole che i virtuosismi, l’eccessiva tecnica non facevano altro che rompere ogni comunicazione, ogni scambio empatico col pubblico, per cui si rendeva necessario mettersi a nudo, al servizio degli spettatori, nella capacità di guardarsi con gli occhi di un altro e con l’assunto che un uso misurato del dialetto non poteva che rendere viva la recitazione, aggiungendo espressività e realismo. Una consapevolezza che diverrà un’importante lezione per gli studenti della sua scuola di recitazione, quest’ ultima vista come un qualcosa di certamente nobile ma non propriamente sacro, nient’altro che un mestiere e come tale migliorabile con la pratica, esprimendo man mano la capacità di creare le proprie circostanze, convincere il pubblico della propria serietà, anche nel ruolo comico. Un percorso di crescita personale, soprattutto interiore, prendendo coscienza di sé.
Non si fa l’attore, o lo si è o non lo si è: “io sono un attore non faccio l’attore”, sottolinea Proietti.
Il tutto ricordando sempre di tenere i piedi ben saldi per terra, come evidenziato dalle parole della madre Giovanna, quando entrò in camerino dopo aver assistito al citato A me gli occhi please, fra le urla del pubblico (“Meraviglioso!”, “Irripetibile!”).
Alla domanda del figlio se le fosse piaciuto lo spettacolo rispose: “Abbastanza”. Un senso ponderato offerto alle parole ormai dimenticato nell’attualità dell’iperbole, ma sempre utile al nostro arricchimento, non solo culturale, perché nel passato vi è quanto abbiamo dimenticato o ciò che ci manca per vivere pienamente il presente. Ma di quest’ultimo il poliedrico artista ce ne “parlerà domani, quando sarà diventato ieri” e non mancherà certo di coinvolgerci ed appassionarci, come ha fatto in tutti questi anni, sempre con leggerezza, “quella virtù, grazie alla quale è possibile affrontare anche le questioni più gravi, senza affanni, isterie. Categoria irraggiungibile ma è necessario provare a raggiungerla”.
Già pubblicato, in data 31/12/2013, sul sito Storia dei Film