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Parigi, la città romantica per eccellenza. Julie Deply ne mostra un lato molto meno incantevole, quasi antifrastico. Parigi diventa l’emblema di un mondo a metà tra l’emancipazione europea, con un po’ più di snobismo culturale e molte tradizioni in comune con i latini del sud e una Manhattan vecchia maniera, con Woody portato all’eccesso, stordito. E l’amore diventa un compromesso, non un lungo abbraccio, tra problemi personali e della relazione. Due fidanzati giungono a Parigi. Lei vi fa ritorno, fa la fotografa, ha i capelli ricciastri e degli occhiali che ne coprono la grande orbita, malformazione alla vista compresa, va dai suoi genitori, dalla sua famiglia, due tipi strani, ossessionati dalla sessualità esibita, concettuale, per intenderci. Lui è Americano, di quelli che mangiano al fast-food, con grande attenzione solo ad alcune patologie, qualche nevrosi, scimmiotta la compagna con la macchina fotografica. Parigi dovrebbe essere il luogo perfetto, eppure gli animi si scatenano con grande virulenza, forza, placati in continuazione. I rapporti sessuali risentono della scomodità di una stanza aperta a tutti, di un letto stretto, di preferenze non reciproche, di guerra tra sessi, identificati nell’insieme, tra pungenti diatribe. Parigi diventa l’ago in un pagliaio, il romanticismo delle sue mete più note viene sostituito dalla rappresentazione di scenari grotteschi, come il mercato, niente Fiumi, monumenti, attrazioni, 2 giorni a vivere con i francesi. E gli sciovinisti non sono così semplici da trattare, non così dolci, complessi come pochi, a volte artisti sgangherati, a volte troppo permissivi e libertini. Il ritratto ha una sua carineria, ma è poco fruttuoso per ciò che riguarda una seria analisi psicologica, non esprime nulla della cultura francese se non macchiette edulcorate, che oscillano tra il simpatico e l’antipatico. E’ un insieme di gag psicologiche, ma raffigura un lato squisitamente di impatto, e lancia pregiudizi sui costumi, non solo francesi, ma anche americani. La rosa diventa artificiale, in un vaso di plastica, fatta di nylon, neanche di velluto e Julie Deply conferma la sua antipatia. “2 giorni a Parigi” cerca di svincolarsi dal topos di Parigi che ama, ma cade in tantissimi altri clichè, eccedenti in un film di genere. Quando nasce un amore, nasce come una rosa senza spine. Quando si produce un film come questo, ha solo spine che trafiggono i generi e lasciano senza respiro. Consigliato ai fan della Deply, ai fan delle atmosfere di Linklater, più stucchevole ma più posato, agli innamorati dei diverbi contorti, a chi rompe i cocci sui vetri e i piatti sui tavoli. Alla fine la Deply si mostra logorroica. E il suo film altrettanto. Dove finisce il limite tra necessaria carica corrosiva/eversiva e buona riuscita dello script? Di certo non in un film che, nel suo essere grottesco, non sa, in minima parte appassionare e cade nel tranello della dimensione indipendente (con nudi annessi e politica dominante) europea, guardandosi allo specchio con compiacenza piuttosto che con lo stesso sguardo critico di cui si fa portavoce. La Deply cerca di fare suo il verbo di Linklater, che l’ha diretta due volte a 10 anni di distanza. Peccato che rimanga sempre la solita Deply.
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