Marc Webb lascia il videoclip e fa un film. Eresia? Assolutamente No! Cos'è (500) Days of Summer se non un piccolo film (dura 90 minuti) che racchiude in sè tanti piccoli videoclip? Si consideri un solo aspetto, indipendente da un fattore di macchina da presa: la musica coordina la sceneggiatura, senza invaderla del tutto, e diventa essa stessa sceneggiatura. Potete obiettare: niente di nuovo sotto il sole cinematografico. Ogni musical coerente ed organico segue questa strada, in realtà il discorso è diverso: nel musical gli intermezzi musicali derivano da una partitura teatrale, da testi appositamente creati, da rifacimenti adattati. Marc Webb estrapola una manciata di canzoni indie, di generi diversi, dall'anti-folk di Regina Spektor con "Us" all'assoluta contaminazione degli epocali Smith, dallo stile cadenzato della cantautrice Carla Bruni al pop di Hall & Oates e le coordina, sovrapponendole a precise sequenze. Ne deriva un' identificazione tra il testo della canzone e ciò che accade nella sequenza. "Across the Universe" potrebbe essere il modello di riferimento, ma si va oltre, in quanto la musica non è solo un pretesto per raccontare una storia, come con i Beatles, che, in parte, determinano l'evoluzione della fabula del film di Julie Taymor, è sceneggiatura in sè. Per esplicare il concetto, basti seguire il ragionamento. Se si guardasse il film con i sottotitoli del testo originario delle canzoni, senza audio, nelle parti musicali, sarebbe possibile avere una simililtudine concreta con quello che è lo svolgersi degli eventi. In più, anche i personaggi interpretano canzoni da karaoke inseribili nella vicenda. Webb non si limita a questo, ma monta le sequenze senza un ordine cronologico coordinato. L'espediente è chiaro: pur affermando già nei titoli di testa che "questa non è una storia d'amore", in realtà allontana, attraverso flashbacks e flashforwards, l'esitò della storia, in modo da disarcionarne ogni aspetto, prima dello scioglimento finale, aumentando aspettative. Ciò non compromette la fluidità della pellicola, anche grazie ad uno stacco che scandisce il passaggio dei giorni, andando avanti ed indietro nel tempo, e che sottolinea, attraverso il cambiamento climatico, l'evoluzione positiva o negativa della storia d'amore di Tom. Il frame in questione ricorda i disegni di Juno e lo stile minimalista della locandina di Away We Go. Alcune inquadrature di raccordo sono in bianco e nero. Espletata la parte tecnica più originale, tutta l'opera pretende, a ragione, di scardinare un preciso sistema sociale che attribuisce all'uomo una certa leggerezza in amore ed esaspera l'emozionalità della donna. I ruoli sono capovolti, l'ordine sovvertito, ma si badi bene che Summer non è una proto-femminista rivoluzionaria o una ninfomane, è semplicemente sè stessa e va accettata così com'è. Lo scontro tra sessi viene portato su un livello più pepato ed appetibile, ma lo svolgersi filmico ne ridimensiona l'eco, in modo discreto. Una nota a margine va alla bravura di Zooey Deschanel e di Joseph Gordon-Levitt. E' da tempo che i film da Sundance hanno una resa commerciale marcata, da "Little Miss Sunshine" a "Juno" e, per farlo, si affidano ad una recitazione moderna, di attori non notissimi, da Alan Arkin a Jennifer Garner, da Ellen Page a Toni Colette, che mostrano doti indiscutibili (si pensi a Steve Carrell con Abigail Breslin, zio e nipotina), ma è questo il caso in cui il personaggio trova, nella sua semplicità, attraverso la recitazione, la sua migliore realizzazione. Una caratteristica è l'indefinitezza delle scelte e delle emozioni. Forse, l'unico difetto sta proprio nell'eccessiva geometria tecnica e anche di sceneggiatura della vicenda.
Marc Webb lascia il videoclip e fa un film. Eresia? Assolutamente No! Cos'è (500) Days of Summer se non un piccolo film (dura 90 minuti) che racchiude in sè tanti piccoli videoclip? Si consideri un solo aspetto, indipendente da un fattore di macchina da presa: la musica coordina la sceneggiatura, senza invaderla del tutto, e diventa essa stessa sceneggiatura. Potete obiettare: niente di nuovo sotto il sole cinematografico. Ogni musical coerente ed organico segue questa strada, in realtà il discorso è diverso: nel musical gli intermezzi musicali derivano da una partitura teatrale, da testi appositamente creati, da rifacimenti adattati. Marc Webb estrapola una manciata di canzoni indie, di generi diversi, dall'anti-folk di Regina Spektor con "Us" all'assoluta contaminazione degli epocali Smith, dallo stile cadenzato della cantautrice Carla Bruni al pop di Hall & Oates e le coordina, sovrapponendole a precise sequenze. Ne deriva un' identificazione tra il testo della canzone e ciò che accade nella sequenza. "Across the Universe" potrebbe essere il modello di riferimento, ma si va oltre, in quanto la musica non è solo un pretesto per raccontare una storia, come con i Beatles, che, in parte, determinano l'evoluzione della fabula del film di Julie Taymor, è sceneggiatura in sè. Per esplicare il concetto, basti seguire il ragionamento. Se si guardasse il film con i sottotitoli del testo originario delle canzoni, senza audio, nelle parti musicali, sarebbe possibile avere una simililtudine concreta con quello che è lo svolgersi degli eventi. In più, anche i personaggi interpretano canzoni da karaoke inseribili nella vicenda. Webb non si limita a questo, ma monta le sequenze senza un ordine cronologico coordinato. L'espediente è chiaro: pur affermando già nei titoli di testa che "questa non è una storia d'amore", in realtà allontana, attraverso flashbacks e flashforwards, l'esitò della storia, in modo da disarcionarne ogni aspetto, prima dello scioglimento finale, aumentando aspettative. Ciò non compromette la fluidità della pellicola, anche grazie ad uno stacco che scandisce il passaggio dei giorni, andando avanti ed indietro nel tempo, e che sottolinea, attraverso il cambiamento climatico, l'evoluzione positiva o negativa della storia d'amore di Tom. Il frame in questione ricorda i disegni di Juno e lo stile minimalista della locandina di Away We Go. Alcune inquadrature di raccordo sono in bianco e nero. Espletata la parte tecnica più originale, tutta l'opera pretende, a ragione, di scardinare un preciso sistema sociale che attribuisce all'uomo una certa leggerezza in amore ed esaspera l'emozionalità della donna. I ruoli sono capovolti, l'ordine sovvertito, ma si badi bene che Summer non è una proto-femminista rivoluzionaria o una ninfomane, è semplicemente sè stessa e va accettata così com'è. Lo scontro tra sessi viene portato su un livello più pepato ed appetibile, ma lo svolgersi filmico ne ridimensiona l'eco, in modo discreto. Una nota a margine va alla bravura di Zooey Deschanel e di Joseph Gordon-Levitt. E' da tempo che i film da Sundance hanno una resa commerciale marcata, da "Little Miss Sunshine" a "Juno" e, per farlo, si affidano ad una recitazione moderna, di attori non notissimi, da Alan Arkin a Jennifer Garner, da Ellen Page a Toni Colette, che mostrano doti indiscutibili (si pensi a Steve Carrell con Abigail Breslin, zio e nipotina), ma è questo il caso in cui il personaggio trova, nella sua semplicità, attraverso la recitazione, la sua migliore realizzazione. Una caratteristica è l'indefinitezza delle scelte e delle emozioni. Forse, l'unico difetto sta proprio nell'eccessiva geometria tecnica e anche di sceneggiatura della vicenda.
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